«Una delle più grandi minacce del presente è la fiducia nel fatto che si stiano attuando misure reali e sufficienti per affrontare la crisi climatica, che qualcuno se ne stia occupando. In realtà non è così, per niente. Il tempo dei “piccoli passi nella giusta direzione” è finito da tempo, eppure questo è ciò che i nostri governanti stanno – nel migliore dei casi – cercando di ottenere». Greta Thunberg, assieme ad altre tre attiviste per il clima – Luisa Neubauer, Adélaïde Charlier, Anuna de Wever van der Heyden – ha raccolto, in un post che metterà in imbarazzo diversi leader politici a livello mondiale, alcune riflessioni sui numeri comunicati dall’Unione europea rispetto agli obiettivi di riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Con alcune semplici operazioni aritmetiche, le attiviste dimostrano che l’UE sta imbrogliando, usando i numeri per convincerci che le cose stiano andando meglio di come vanno in realtà. «La proposta di una riduzione del 55, 60 o addirittura 65 per cento delle emissioni di CO2 entro il 2030 non sono assolutamente in linea con gli impegni dell’accordo di Parigi che prevede di mantenere l’incremento delle temperature a livello globale entro 1,5  °C, o comunque “ben al di sotto dei 2 °C” – scrivono le autrici –. La nostra democrazia dipende dal fatto che i cittadini siano informati su ciò che li riguarda, ed è a dir poco preoccupante che queste informazioni non siano riportate correttamente». A cosa si riferiscono le autrici del testo?

Ambizioni più modeste di quanto sembri

Come spiegato nell’articolo, le misure proposte alla fine del 2019 dall’Unione europea prevedevano una riduzione del 55 per cento delle emissioni inquinanti entro il 2030, a partire dal 1990. È quindi a partire da quell’anno che bisogna calcolare la riduzione. Dato che l’UE ha già raggiunto, nel corso degli ultimi trent’anni, un abbassamento delle emissioni del 23 per cento, ciò vuol dire che l’obiettivo del 55 per cento è in realtà un 55 meno 23 per cento, dal 1990 al 2030. Rispetto ai livelli attuali, si tratta di una riduzione del 42 per cento, il che ridimensiona le reali ambizioni, se comparate agli annunci. Ma c’è un altro dettaglio importante, spesso ignorato anche da chi riporta questo tipo di dati. Le minori emissioni registrate dal 1990 sono state raggiunte in larga parte esportando la produzione europea in altre parti del mondo. Le attiviste fanno l’esempio della Svezia, le cui emissioni di CO2 sono diminuite del 27 per cento dal 1990. Ma se si aggiungono al conteggio i consumi relativi ai beni prodotti all’estero importati nel paese, insieme ai dati sull’impatto del trasporto internazionale, si raggiunge una quantità di emissioni pari a quel 27 per cento. In sostanza, dunque, l’anidride carbonica emessa globalmente dalla Svezia non è diminuita dal 1990. Abbiamo spostato fuori dall’Europa le emissioni, non le abbiamo ridotte.

L’impatto nascosto della globalizzazione

Come si diceva, i dati comunicati dall’Unione europea non comprendono l’aviazione internazionale, il trasporto, né l’impatto dei prodotti realizzati fuori dall’UE e importati nel continente. Per esempio, se avete un computer realizzato in Cina, scarpe prodotte in Indonesia, jeans fatti in Bangladesh, una giacca realizzata in India, bevete caffé keniano, usate un telefono coreano e mangiate carne brasiliana, nessuna di queste cose influirà sui dati europei sull’inquinamento. E per gli stessi motivi, un viaggio in treno da Milano a Piacenza avrà un maggiore impatto sui dati rispetto a un viaggio in aereo di andata e ritorno da Roma a Buenos Aires.

Ecosistemi interdipendenti

La popolare idea di dimezzare le emissioni entro il 2030 (a partire stavolta dal 2010) è basata su un consumo previsto di carbone che ci dà solo il 50 per cento di probabilità di restare sotto 1,5 °C di incremento delle temperature. Ma queste misure danno per scontato che gli ecosistemi naturali, gli oceani e i ghiacci perenni restino stabili, senza superare punti di non ritorno che inneschino catene di conseguenze destinate ad accelerare il riscaldamento. Si pensi ad esempio alle emissioni dovute agli incendi, alla morte di foreste per malattie e siccità, all’effetto albedo dato dalla scomparsa dei ghiacci marini o al rapido disgelo del permafrost artico causato dal rilascio di metano. Al contrario, tali promesse si basano sull’idea di rimuovere enormi quantità di CO2 dall’atmosfera con tecnologie che difficilmente saranno disponibili nella dimensione necessaria entro la scadenza fissata. Quindi, le probabilità sono ben più basse del 50 per cento.

(Foto di Ella Ivanescu su Unsplash)