Molte persone che scelgono di modificare le proprie abitudini alimentari (solitamente smettendo di diventare vegetariane o vegane), lo fanno pensando all’impatto che la produzione di cibo ha sulla salute del pianeta. Il tema è oggetto di dibattito, che prosegue ora grazie ai risultati di una ricerca pubblicata su Science. Ne parla Giulia Negri su Micron.
Ogni nostra azione ha effetto sul Pianeta: da come scegliamo di spostarci, a cosa utilizziamo per riscaldare e rinfrescare le nostre case, a cosa mangiamo. E proprio riguardo al cibo molte persone stanno scegliendo regimi alimentari differenti per cercare di ridurre le emissioni di gas serra o il consumo di suolo. Per loro, per chi non crede sia necessario e per tutti quelli attenti alle problematiche ambientali e alla sostenibilità, la ricerca pubblicata su Science riguardo a come diminuire l’impatto del cibo tra produttori e consumatori sarà una lettura interessante e non priva di sorprese.
I ricercatori della Oxford University e Agroscope, l’istituto di ricerca svizzero sull’agricoltura, hanno infatti creato il database esistente più completo sull’impatto ambientale di quasi 40.000 aziende agricole, 1.600 impianti di lavorazione, tipi di imballaggi, rivenditori. Questo ha consentito loro di stimare quali tecniche produttive e quali aree geografiche abbiano maggiore o minore impatto per 40 tra i principali alimenti.
Ci sono grandi differenze all’interno della filiera di uno stesso alimento: i produttori a più alto impatto di carne bovina arrivano a emettere 105 chilogrammi equivalenti di anidride carbonica e a utilizzare 370 metri quadrati di terreno per 100 grammi di proteine, ovvero 12 e 50 volte in più rispetto ai produttori a basso impatto. A loro volta, questi ultimi creano 6 volte più emissioni e usano 36 volte più terra di chi coltiva piselli. Eppure l’acquacoltura, ovvero l’allevamento industriale in acqua dolce o salata di pesci, molluschi e crostacei, può emettere più metano – ancora più impattante rispetto all’anidride carbonica come gas serra – per chili di peso vivo rispetto a un allevamento bovino.
Una pinta di birra potrebbe creare tre volte più emissioni e usare 4 volte più terreno rispetto a un’altra: questa variazione è stata delineata attraverso cinque indicatori dagli scienziati, tra i quali sono presenti l’utilizzo d’acqua, l’acidificazione e l’eutrofizzazione.
«Due prodotti che sembrano identici nei negozi possono avere due impatti completamente diversi sul Pianeta. Al momento non lo sappiamo quando decidiamo cosa mangiare. In più, questa variabilità non è del tutto riconosciuta nelle strategie e nelle politiche che cercano di ridurre l’impatto delle aziende agricole» sostiene Joseph Poore del Dipartimento di Zoologia e della Scuola di Geografia e Ambiente. Quello che invece, forse, è più semplice da immaginare è che il grosso dell’impatto viene creato da un piccolo numero di produttori. Appena il 15% della carne bovina che troviamo sul mercato crea 1.3 miliardi di tonnellate equivalenti di anidride carbonica e utilizza circa 950 milioni di ettari di terreno. Se invece prendiamo in considerazione tutti i prodotti, il 25% delle aziende contribuisce alla produzione del 53% in media sul quantitativo del singolo alimento. Questo disallineamento mostra il potenziale nell’aumento di produzione e nella riduzione dell’impatto sull’ambiente.
«La produzione di cibo genera un immenso carico per l’ambiente, ma questo non è una conseguenza necessaria dei nostri bisogni. Quest’onere potrebbe essere ridotto in maniera significativa modificando il modo in cui produciamo e consumiamo», spiega Poore. I ricercatori hanno mostrato come l’utilizzo di nuove tecnologie per raccogliere dati e quantificare il proprio impatto ambientale potrebbe fornire consigli su come ridurlo e aumentare la produttività.
C’è però un problema: esistono limiti oltre i quali i produttori non possono andare. In particolare, i ricercatori hanno scoperto che i prodotti di origine animale avranno sempre un impatto superiore a quelli vegetali, anche con l’aiuto della tecnologia. Per esempio, un litro di latte vaccino, anche se a basso impatto, usa quasi il doppio del terreno e genera emissioni di gas serra pari a due volte quelle di un litro di latte di soia nella media.
Il cambiamento più grande per l’ambiente, quindi, lo può fare la nostra dieta, ancor più che acquistare carne o latticini sostenibili. In particolare, un regime alimentare a base di vegetali diminuirebbe le emissioni legate al cibo fino al 73%, a seconda del luogo in cui si vive. Una scelta di questo tipo, in maniera abbastanza sorprendente, ridurrebbe a livello globale il quantitativo di terreni impiegati per l’agricoltura di circa 3.1 miliardi di ettari, ovvero il 76%. Questo permetterebbe anche di togliere parte della pressione sulle foreste tropicali e di ripristinare allo stato naturale alcuni territori.