Oltre ai noti problemi di accesso al servizio di interruzione volontaria di gravidanza, dovuto principalmente un alto tasso di obiettori di coscienza tra i ginecologi, la pandemia ha sommato ulteriori problemi, tra chiusura, trasferimento o limitazione di alcuni reparti. Il reportage di Claudia Torrisi per Internazionale.

Quando all’inizio di novembre si è resa conto di essere incinta, Alessandra (nome di fantasia), 24 anni, si è messa a cercare online come abortire. La prima cosa che ha scoperto è stata che a Fermo, nelle Marche, dove abita con i genitori, tutti i ginecologi sono obiettori di coscienza. “Su internet avevo letto che per prima cosa dovevo andare al consultorio a chiedere un certificato per l’interruzione volontaria di gravidanza”, racconta. Il consultorio più vicino a Fermo è quello di Porto San Giorgio, dove le hanno fissato un appuntamento con una ginecologa dell’ospedale. All’ora di pranzo del giorno successivo, però, Alessandra si è resa conto di non sentire più gli odori.

“Ho fatto un tampone rapido e sono risultata positiva al covid-19. Tutta la mia famiglia lo era: mia madre fa l’insegnante, probabilmente l’ha preso a scuola e poi ci siamo contagiati tutti”, spiega. Al telefono la ginecologa con cui aveva appuntamento le ha detto di aspettare due settimane e un tampone negativo. Alessandra ha cominciato ad agitarsi: non aveva ancora fatto nemmeno una visita, non sapeva da quante settimane era incinta e trovare informazioni sulle procedure in caso di aborti su donne positive sembrava impossibile.

“Per quasi due settimane io e i miei genitori abbiamo contattato tutti i consultori e gli ospedali della regione”, ricorda. Un operatore dell’ospedale di Macerata le ha detto al telefono che una donna positiva al covid aveva abortito chirurgicamente poco tempo prima a Pesaro. Dopo diversi giri di telefonate, Alessandra è riuscita a ottenere un appuntamento per la visita ginecologica. “Sono andata a Pesaro con la macchina, sono 140 chilometri da Fermo. Ero ancora positiva e con sintomi. Mi hanno dato un appuntamento e dopo due giorni sono tornata per fare l’interruzione chirurgica”, racconta. A metà dicembre Alessandra era ancora positiva al tampone. “Non so come sarebbe finita se avessi davvero aspettato, se non avessi avuto un’auto o una famiglia che mi aiutava. Quello che mi ha spaventata di più è stato trovarmi da sola senza sapere a chi rivolgermi?”.

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(Foto di Adolfo Lujan su flickr)

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