All’inizio del 2017, il sociologo e politologo inglese William Davies pubblicava sul Guardian un lungo articolo (tradotto nei mesi successivi da Internazionale e riproposto sul sito del giornale in questi giorni) intitolato “Come la statistica ha perso potere – e perché dovremmo temere ciò che verrà dopo”. All’epoca il mondo (almeno quello europeo e statunitense) era in pieno “shock” per l’esito del referendum su Brexit e per la vittoria alle elezioni americane di Donald Trump. Erano gli anni in cui si parlava di “post-verità” e in cui si manifestava con piena evidenza il contrasto tra la disponibilità di alcune persone a credere a ciò che veniva presentato loro come “fatto” dalle fonti ufficiali (istituzioni, scienziati, ricercatori) e la tendenza di altri ad aderire a teorie e “fatti alternativi” portati da coloro che volevano promuovere una propria idea di realtà.

«In teoria – scrive Davies – le statistiche dovrebbero servire a risolvere i contrasti. Dovrebbero dare a tutti – indipendentemente dalle posizioni politiche – un punto di riferimento certo da cui partire. Eppure, negli ultimi anni, la divergenza di vedute sull’attendibilità delle statistiche ha contribuito alla divisione che sta attraversando le democrazie liberali occidentali. […] Non solo le statistiche sono considerate inattendibili, ma sembra quasi che abbiano qualcosa di offensivo e di arrogante. Ridurre le questioni sociali ed economiche ad aggregati numerici o medie appare un insulto alla dignità politica delle persone».

I limiti della statistica

L’articolo di Davies ricostruisce in maniera approfondita la storia e l’origine della statistica come mezzo per indagare la realtà e quindi trarre delle conclusioni su di essa. In estrema sintesi, se la metodologia statistica resta un ottimo metodo (almeno finché non se ne inventerà uno migliore) per conoscere i fenomeni sociali, ciò non toglie che essa abbia dei limiti e che la sua evoluzione storica abbia dato luogo a eccessive semplificazioni e discriminazioni. Per esempio, nella tendenza a incentrare le analisi sulla dimensione nazionale, si perdono le sfumature locali.

La scelta di quali dati sulla popolazione si sceglie o meno di raccogliere, e il modo in cui lo si fa, determinano l’inclusione o l’esclusione di categorie e problemi. Questo diventa un problema nel momento in cui, sulla base di quei dati, si prendono delle decisioni. Se un rapporto sulla popolazione non riesce a rappresentare fedelmente, ad esempio, i dati sulla disoccupazione, o sull’immigrazione, o sull’istruzione, le politiche che ne seguiranno non potranno che essere fallimentari, o peggio ancora potrebbero acuire problemi già esistenti.

Sono problemi noti da tempo agli studiosi, e in questi anni si stanno facendo degli sforzi affinché i dati siano sempre più inclusivi, per esempio facendo partecipare le popolazioni nella scelta delle categorie con cui saranno rappresentate. In ogni caso, come scrive Davies, il contributo della statistica nella comprensione della realtà è indubbio: «Le statistiche non sono né verità incontestabili né cospirazioni ordite dalle élite, ma strumenti creati per facilitare il lavoro dello stato, nel bene e nel male. Hanno avuto un ruolo fondamentale nell’aiutarci a capire gli stati-nazione e il loro progresso. Ecco allora una domanda inquietante: se le statistiche saranno messe da parte, come faremo ad avere ancora un’idea comune della società e del progresso collettivo?».

Statistica e pandemia

Nel momento in cui Davies si pone tale domanda, i due fatti più eclatanti sono quelli che citavamo in apertura, Brexit e Trump. Poco più di tre anni dopo, in un contesto generale non particolarmente diverso da questo punto di vista, scoppia una pandemia che scuote il mondo intero. All’improvviso, proprio la materia più avversata in quanto “elitaria” e sospetta di manipolazioni torna al centro del dibattito quotidiano. Si comincia a parlare di curve di contagio, di indice Rt, poi di efficacia dei vaccini, ecc. L’ultimo anno e mezzo ha sdoganato la presenza di grafici e tabelle su giornali, siti d’informazione, trasmissioni televisive. Ha messo in luce anche il grande “analfabetismo statistico” diffuso a tutti i livelli. Spesso, soprattutto all’inizio della pandemia, coloro che avrebbero dovuto spiegare alla popolazione ciò che stava accadendo (giornalisti, politici) si sono dimostrati non all’altezza del compito. Ciò ha portato, in parte, ad alcuni cambi al vertice in ambito politico, e ha favorito l’emergere di bravi giornalisti in grado di leggere, elaborare e spiegare i dati in maniera comprensibile.

Un altro contributo al contesto dato dalla “quotidianità del dato” è stato rendere più evidente la distinzione tra il parere scientifico e la scelta politica. Dove la scienza è costretta a fermarsi, perché non ha abbastanza conoscenze su un fenomeno per pronunciarsi (pensiamo all’opportunità di procedere con una terza dose di vaccino, o alla decisione di sospendere l’inoculazione del vaccino AstraZeneca), la politica può (e deve) mettere in campo una discrezionalità che prenda in considerazione uno spettro più ampio di variabili. Diventano così evidenti le logiche e le priorità di partiti ed esponenti politici, distinguendo quelli che hanno come priorità il consenso da coloro che mirano al bene comune.

Certo i problemi rilevati da Davies non sono svaniti. Il populismo “anti-élite” è ancora lì, in attesa del momento buono per prendersi la scena. Allo stesso modo, la diffidenza, o l’avversione, per le statistiche non si sono esaurite. Lo dimostrano le tante persone che, per motivi diversi, ancora non si sono vaccinate.

Eppure, scrive Davies, «le statistiche sono l’esatto contrario dell’elitarismo. Permettono ai giornalisti, ai cittadini e ai politici di discutere della società nel suo complesso non sulla base di aneddoti, sensazioni o pregiudizi, ma con dati verificabili. L’alternativa ai valori statistici non è la democrazia, ma la libertà per demagoghi e direttori di giornali scandalistici di spacciare la loro “verità” su cosa sta succedendo nella società». E conclude: «Sicuramente bisogna trovare dei sistemi per raccogliere i dati in un modo che rispecchi meglio l’esperienza vissuta. Ma sul lungo periodo la battaglia che va combattuta non è tra la politica dei fatti guidata dalle élite e la politica delle emozioni guidata dal populismo. È tra chi ancora crede nella conoscenza e nel dibattito pubblico e tra chi trae profitto dalla loro disintegrazione».

(Foto di James Yarema su Unsplash)

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