C’è uno studio sugli effetti dell’imprecazione sulla psiche umana che viene ripreso periodicamente dalla stampa. Si intitola “Swearing as a response to pain” (“Imprecare come reazione al dolore”), risale al 2009 ed è stato scritto dallo psicologo Richard Stephens, insieme ad altri colleghi. Lo studio, nel caso qualcuno se lo stesse chiedendo, non arriva assolutamente a promuovere l’uso delle parolacce nella vita quotidiana, men che meno nelle interazioni sociali.
La domanda che si ponevano i ricercatori, come indica il titolo, era relativa alla funzione dell’imprecazione nella percezione e resistenza al dolore. La prova alla quale si sono sottoposti i volontari è stata immergere una mano in una bacinella di acqua gelida e di tenercela il più possibile. A un gruppo era richiesto di farlo ripetendo nel frattempo una parola neutra. A un altro gruppo è stata invece assegnata una parolaccia da ripetere liberamente. L’osservazione ha mostrato che quest’ultimo gruppo ha resistito mediamente di più alla prova, e ha riportato una percezione del dolore più bassa rispetto al primo. Inoltre è stato monitorato il battito cardiaco dei partecipanti, e anche in questo caso si è registrata una differenza: il secondo gruppo mostrava un incremento della frequenza cardiaca maggiore rispetto al primo durante la prova. Segno che probabilmente stava avvenendo un’attivazione emotiva più rilevante. Questo ha suggerito ai ricercatori che forse si stava attivando una risposta dell’organismo chiamata “Fight or flight response” (detta anche “reazione acuta da stress”). Un meccanismo che aumenta la circolazione di adrenalina, accelera il battito cardiaco e innesca un naturale sollievo dal dolore noto come “Stress-induced analgesia”.
La descrizione delle reazioni che si innescano suonerà familiare alle donne che nella loro vita hanno partorito: spesso nel momento del travaglio si avvia un colorito flusso di parolacce da parte delle partorienti, nell’indifferenza del personale medico. Per gli uomini c’è sempre la bacinella col ghiaccio da sperimentare.
Un aspetto interessante, però, messo in evidenza da una ricerca successiva condotta sempre da Stephens, è che se si impreca troppo spesso, l’effetto svanisce. L’abitudine allo sproloquio porta a una non attivazione dei meccanismi descritti fin qui. Essendo questi probabilmente legati a una risposta emotiva, l’uso di parolacce come pratica quotidiana e continua riduce o annulla l’entità dell’attivazione. Questo interessante follow-up sposta decisamente il tiro rispetto al messaggio che certa stampa cerca di forzare trattando questo argomento, ovvero che imprecare “fa bene”. Questo è vero solo in certe occasioni, e solo se si tratta di un’eccezione alla regola.
Per completezza, citiamo un altro studio che mostra prove del fatto che imprecare possa aumentare le performance fisiche. In questo caso, però, l’imprecazione non altera il ritmo cardiovascolare, quindi non è chiaro quale meccanismo stia alla base del fenomeno.
Inoltre un’altra ricerca ha dimostrato una correlazione diretta tra la proprietà di linguaggio in generale e la “fantasia” nell’imprecare. Ai partecipanti dello studio è stato dato un minuto di tempo per pensare a tutte le parolacce che gli venivano in mente. Si è riscontrato che quelli che andavano meglio erano gli stessi che conquistavano un punteggio più alto nelle prove linguistiche generali. Non abbiamo notizie di dati sull’ipotesi inversa, ovvero che conoscere molte parolacce possa aiutare a migliorare la proprietà di linguaggio complessiva, ma ci sentiamo di escluderlo.
(Foto di sebastiaan stam su Unsplash)