Dopo aver parlato delle carenze nell’assistenza psichiatrica e psicologica all’interno delle carceri italiane, affrontiamo lo stesso tema all’interno del sistema di accoglienza dei migranti. Una lunga inchiesta a più mani pubblicata sul Tascabile analizza da cima a fondo il problema, raccontando storie di persone interessate e riportando le voci di tanti esperti e operatori del settore.

Innanzitutto vediamo i numeri: «Il sistema di accoglienza italiano ospita più di 75 mila migranti, ripartiti fra i centri del Sistema Accoglienza Integrazione (SAI) e i CAS. Queste strutture si ispirano al principio dell’accoglienza integrata, per cui le persone accolte dovrebbero diventare autonome e ambientarsi nella nuova comunità attraverso progetti di inclusione lavorativa e scolastica. Nella realtà sono spesso luoghi di esistenze in attesa».

Le persone che entrano in questo sistema hanno quasi sempre affrontato lunghi viaggi, che in certi casi possono durare anni, fatti di respingimenti, nuovi tentativi, violenze, talvolta forme di tortura. Il tutto per lasciare una vita senza prospettive e in cerca di un futuro quanto mai incerto. Il sistema di presa in carico dei migranti dovrebbe tenere conto di tutto questo, per non finire per diventare parte dello stesso problema, evitando quindi di infliggere alla persona migrante ulteriori sofferenze e disagi psicologici.

Purtroppo le cose non vanno come dovrebbero: «“I centri ordinari del SAI prevedono uno psicologo in ogni struttura”, afferma Rossella di Iorio, operatrice sociale in Toscana. “Nei CAS invece questa figura era stata eliminata con i ‘decreti sicurezza’ lasciando un vuoto enorme, ed è stata reintrodotta solo di recente.” I CAS, che attualmente ospitano circa il 70% dei richiedenti asilo, sono l’anello debole del sistema di accoglienza per quanto riguarda il supporto psicologico: si limitano a distribuire pasti, sorvegliare gli ospiti e rilasciare i documenti. Gli psicologi sono presenti per un tempo inadeguato o non sono proprio previsti; a occuparsi della sofferenza dei migranti sono principalmente gli operatori sociali, spesso non formati per questo compito. Stando alle ultime ricerche sui problemi psicologici nei migranti in arrivo i disturbi più comuni sono di tipo reattivo, cioè si manifestano in seguito a un trauma. La condizione più diffusa è il disturbo da stress post traumatico (PTSD), che varia tra il 5% e il 30% a seconda del campione studiato e della metodologia di ricerca».

Un aspetto fondamentale di quanto dicevamo all’inizio, ossia di quanto sia importante che il processo di accoglienza non diventi parte del trauma, è dato dal mancato riconoscimento ai migranti della condizione di persone bisognose di protezione: «Anche l’ottenimento della protezione internazionale e la denuncia delle violenze subite sarebbero dunque profondi momenti riabilitativi. Viceversa, i percorsi di accoglienza traballanti, non riconoscendo il migrante nel suo vissuto, contribuiscono a esacerbarne la sofferenza. Le linee guida del Ministero della Salute riportano che, nei richiedenti asilo sopravvissuti a esperienze di tortura, la prevalenza del disturbo da stress post-traumatico varia dal 9% al 50%. E questa variabilità è in gran parte dovuta alle differenze nel percorso di vita post-migratorio. Nel documento ufficiale si legge che “La prevalenza di PTSD è minima in chi riceve buoni percorsi di accoglienza e permessi di soggiorno senza scadenze rispetto a chi ha visti temporanei e corre il rischio di espulsione”».

A livello legislativo si sono susseguiti diversi tentativi di riformare il sistema di accoglienza. Alcuni molto positivi, ma non attuati fino in fondo, altri tesi invece a indebolire e delegittimare un sistema che in certi casi ha addirittura rappresentato un modello, come nel caso dello Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), nato vent’anni fa.

Come spiega Duccio Facchini su Altreconomia, «Nel 2002 la cosiddetta “Legge Bossi-Fini” (189/2002) dà forma all’”evoluzione” di quello che allora si chiamava Programma nazionale asilo (Pna). Nasce così lo Sprar. Sulla carta il “Sistema” avrebbe dovuto diventare il perno dell’accoglienza nel nostro Paese: diffuso sui territori, casa dei diritti fondamentali delle persone coinvolte, trasparente e ordinato, capace di costruire reali processi di inclusione sociale. Il legislatore, però, non ci crede. Nel 2005, quando l’Italia è chiamata a recepire la Direttiva europea 2003/9/CE sulle “norme minime in materia di accoglienza”, i decisori optano per un modello ibrido. Da un lato l’accoglienza diffusa dello Sprar e dall’altro i centri collettivi posti sotto la diretta gestione governativa delle prefetture, oggi chiamati Cas, centri di accoglienza straordinaria. Questa impostazione binaria dominata dalla “logica emergenziale”, come la chiama il Tavolo, ha retto fino ad oggi, “come se i rifugiati fossero un fenomeno estemporaneo e transitorio destinato a finire”. I posti nello Sprar crescono perciò lentamente e in modo non omogeneo, mentre i Comuni sono invitati a partecipare al Sistema e non obbligati. Risultato: quello che doveva essere il perno resta un corpo gracile e “ancillare rispetto al sistema sempre rimasto dominante, ovvero quello costituito dai centri a diretta gestione governativa”».

Nonostante la pressione delle associazioni e di parte della politica, lo Sprar (poi diventato SAI) non è mai diventato prevalente, e ancora nel 2021 era in grado di garantire solo il 33 per cento del fabbisogno nazionale, mentre il restante 67 per cento è coperto dall’altra gamba del sistema, dall’approccio prettamente emergenziale e contenitivo.

(Foto di Stefano Corso su flickr)

Può funzionare ancora meglio

Il sistema trasfusionale italiano funziona grazie alle persone che ogni giorno scelgono di donare sangue, per il benessere di tutti. Vuoi essere una di quelle persone?

Si comincia da qui