Il dibattito sul razzismo in Italia è fermo a considerazioni talvolta ingenue e sbrigative, che derivano probabilmente da una non piena consapevolezza del fenomeno. Ne scrive Laetitia Leunkeu su ValigiaBlu.

Gli europei di calcio sono stati, tra le altre cose, una fiera di simboli. Tra questi si è diffusa un’immagine che parla più delle parole che si vorrebbero forzare sulla pelle del suo soggetto: un bambino, nero, immortalato mentre in un momento di gioia sbandiera il tricolore per festeggiare insieme agli altri la vittoria sudata contro gli inglesi. Il suo corpo in breve diventa simbolo politico. Sui profili su cui gira la sua immagine si parla di prova di integrazione, di inclusione, di appartenenza. “Questa è l’Italia!” gridano.

Paradossale l’uso strumentale di un bambino, che nel quadro in cui è ritratto e per come viene raccontata l’immagine appare come una anomalia, una irregolarità di un ordine costituito, un vessillo per rivendicare una famigerata normalità. Paradossale quanto esplicativo di una realtà piuttosto deludente.

Sì l’Italia è questa. È quella tendenza all’”io non vedo i colori”, detto sbrigativamente per liquidare qualsiasi discorso cerchi di sviscerare i meccanismi attraverso cui il razzismo si manifesta, per evitare di veder messi in discussione i propri a priori. È quel paese in cui, sia a destra che a sinistra, i corpi neri e migranti diventano mezzi, strumenti utili talvolta a sanare questa e quella crisi economica (le famose “risorse”), talvolta per guadagnare consensi elettorali su promesse vuote, per poi decidere di rifinanziare chi partecipa in primo luogo alle loro sofferenze.

Quella foto è esemplificativa di come il dibattito pubblico attorno al razzismo in Italia abbia ancora forme elementari in cui, spesso, la lotta contro le discriminazioni si riduce a una constatazione passiva delle realtà più clamorose. Una performance sociale attorno alla quale gravita un alone di deresponsabilizzazione costante.

Qualsiasi tentativo di analisi che cerchi di andare alla radice del problema, che affianchi al piano istituzionale (come ad esempio la legge Bossi-Fini e le sue problematiche) anche una critica delle dinamiche individuali, una denuncia delle micro-aggressioni quotidiane e delle insidie del linguaggio politico-mediatico attorno all’immigrazione, viene visto come un’estremizzazione “inutile” del dibattito, specialmente se fatto dalle minoranze etniche stesse.

L’Italia non è un paese razzista”

“Siamo il paese meno razzista d’Europa”

“Gli italiani non sono razzisti, sono solo stanchi”

A ripetercelo nelle tv, sui giornali, sui social, alle conferenze, sono italiani bianchi di sangue ai quali cittadinanza, uguaglianza, costruzione identitaria e appartenenza sono date per scontate, coloro per cui le battaglie (degli altri) rimangono teoriche, questioni filosofiche su cui dibattere ponendo la propria voce e le proprie prospettive al centro della discussione.

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(Foto di Priscilla Du Preez su Unsplash)

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