Alcuni giorni fa sono stati rilasciati due ostaggi italiani rapiti in Niger nel 2018, poi trasportati in Mali, da gruppi estremisti islamici. Sono Pierluigi Maccalli, sacerdote che si trovava in missione in Niger al momento del rapimento, e Nicola Chiacchio, che secondo alcuni giornali era in Africa per cicloturismo. Insieme a loro sono stati liberati una cooperante francese, Sophie Pétronin, e un ex ministro del Mali, Soumaila Cissé. In cambio della liberazione, le autorità del Mali hanno scarcerato 180 detenuti affiliati al gruppo dei rapitori. Ma secondo il Foglio c’è stata anche una contropartita economica a spese del governo italiano per il rilascio dei nostri connazionali: «Secondo fonti vicine ai negoziati sentite dal Foglio, il governo ha pagato in totale sei milioni di euro per liberare Pierluigi Maccalli e Nicola Chiacchio». Non possiamo che rallegrarci per la loro liberazione, ovviamente, e non abbiamo alcun giudizio da esprimere in merito a come sono stati condotti negoziati. Di certo il gruppo islamista ha ricevuto una contropartita importante in cambio del rilascio dei prigionieri. Ma sono questioni su cui è difficile esprimersi, e quindi evitiamo di addentrarci in cose che non conosciamo da vicino. Ciò che ci ha colpiti, però, è la sobrietà con cui è stata riportata la notizia sui giornali italiani, se paragonata alla liberazione di Silvia Romano, avvenuta a maggio di quest’anno tra clamori e attenzioni del tutto diversi. Nelle ore intercorse tra la notizia della liberazione e il suo arrivo in Italia, tutta la vita di Romano era diventata all’improvviso di pubblico dominio. Grande scalpore poi per la sua conversione all’islam, che le ha attirato critiche del tutto esagerate. Grandi polemiche per i soldi spesi per la sua liberazione, giudizi implacabili sul suo “essersela cercata”, scaricando la colpa del rapimento sulla vittima, piuttosto che sui sequestratori. Si era dunque accesa la macchina dell’indignazione, che da ogni lato emetteva sentenze ai danni della giovane cooperante, col risultato di far passare in secondo piano il trauma di una prigionia durata 18 mesi, la gioia di rientrare in Italia incolume, e in generale le complessità della sua situazione. Stavolta non si è visto niente di tutto questo. Anche certi giornali che normalmente non aspettano che di far nascere e alimentare polemiche si sono astenuti dal commentare più di tanto la vicenda. Si è parlato di una “finta conversione” di Chiacchio all’islam, nella speranza di avere un trattamento migliore. Poteva essere un ottimo appiglio per gli specialisti dell’aggressione verbale, ci si poteva condire un commento avvelenato contro questi “buonisti che se le vanno a cercare”. Invece niente. La buona notizia è che ogni tanto, dunque, siamo in grado di comportarci da paese civile. Quella meno buona è che invece, quando si presenta l’occasione di sfruttare un’occasione per portare avanti la propria agenda, c’è chi non si fa scrupoli, trovando purtroppo un discreto seguito. Il sospetto è che nel caso di Silvia Romano abbiano giocato un ruolo il suo essere donna, cooperante, che sia apparsa in buona salute al momento del rilascio (al contrario di Chiacchio e Maccalli, descritti come “magri e provati”), e ovviamente la conversione all’islam. Magari ci sbagliamo, magari siamo noi stavolta a pensare male. Ma l’intermittenza con cui si accende la lampadina dell’indignazione ha una puntualità che appare più che sospetta.

(Foto di Andre Hunter su Unsplash)