Un articolo di Francesca Musiani ripreso dal blog Doppiozero riporta, tra gli altri, questo paragrafo: «Nel suo famoso libro The Wealth of Networks, il giurista Yochai Benkler sostiene che viviamo attualmente in un “ordinamento” globale intrinseco al Web. La caratteristica centrale di questo sistema è che la selezione delle informazioni rilevanti, pertinenti, appropriate per un determinato scopo non è più il monopolio dei gatekeepers -giornalisti, bibliotecari ed editori- ma è delegata agli utenti di Internet, editori essi stessi. Citandosi l’un l’altro, raccomandandosi l’un l’altro in nicchie conversazionali, questi individui e gruppi selezionano l’informazione “di qualità” per gli algoritmi, i quali, a loro volta, la classificano e ordinano per renderla disponibile attraverso i motori di ricerca. L’ordinamento delle informazioni presenti sul Web diventa una co-produzione e co-costruzione degli utenti Internet e degli strumenti computazionali a loro disposizione».

Lo scorso anno, su ZeroNegativo, scrivevamo di come in questi anni la “dittatura degli algoritmi” stia permeando, in maniera invisibile, sempre più aspetti dell’esistenza. Allora ci riferivamo alla possibilità che l’algoritmo possa diventare la base della creatività, incrociando dati e parametri troppo grandi da gestire per la mente umana. Oggi, incrociando (ci proviamo anche noi) quanto scritto da Musiani con i dati emersi dall’ultima ricerca Censis sulla “dieta mediatica” degli italiani (ne scrive Dino Amenduni su ValigiaBlu), la nostra riflessione si sposta verso la produzione e fruizione di contenuti informativi. Sono i numeri a imporci di farlo, perché, scrive Amenduni, «Il 63,5 per cento degli italiani è un utente di Internet. Parliamo di circa 38 milioni di persone. La concentrazione degli utenti Internet italiani tra i 14 e 44 anni (quasi 23 milioni di persone, dati Istat) è ben al di sopra l’80 per cento. Il 20 per cento di questo pubblico ha dichiarato di non leggere le notizie dalla carta stampata. La quota dei non-lettori della carta sale al 44,6 per cento tra gli under 30. Esiste dunque una quota (crescente) di italiani che ha completamente abbandonato quotidiani, settimanali, mensili e libri cartacei, o non ha mai iniziato a leggerli. Nel frattempo, i quotidiani hanno perso un quarto dei lettori in sei anni, e reggono in una sola fascia d’età: gli over 65».

Ciò vuol dire che in Italia ci sono milioni di persone che si informano e formano la propria opinione sull’attualità attraverso internet, tralasciando la carta stampata. Testate che da decenni o secoli escono nelle edicole stanno cercando di costruire da tempo una propria reputazione online, mediando tra l’autorevolezza delle proprie firme e la forzata apertura alla partecipazione degli utenti. Dimenticano però che ormai ci sono altre fonti d’informazione altrettanto accreditate (agli occhi degli utenti) e non è più il nome della testata ad attrarre il lettore-commentatore. Anzi, spesso si parte da articoli pubblicati sui siti dei maggiori quotidiani per smentirli su blog e social network, diventati ulteriori fonti d’informazione al pari delle altre: «La quota di italiani che ha dichiarato di “informarsi” attraverso Facebook è al 37,6 per cento. Due anni fa era al 26,8 per cento. Il sorpasso è questione di settimane, con tutte le conseguenze di questa enormità storica».

Diventa sempre più difficile per i grandi editori mantenere il blasone conquistato sulla carta se non sono in grado di confrontarsi con queste nuove dinamiche che, ancora una volta, ruotano principalmente attorno agli algoritmi. «I motori di ricerca -scrive Francesca Musiani-, e gli altri strumenti di classificazione dell’informazione presente su Internet, costruiscono una gerarchia di visibilità dell’informazione, proponendola tra i primi risultati della ricerca o dissimulandola tra gli ultimi. Decidendo, di fatto “cosa dev’essere visto”, gli algoritmi che sottendono questi strumenti possono scoraggiare o incoraggiare la discussione e la controversia – e contribuiscono così a costruire l’agenda pubblica delle priorità politiche e sociali, selezionando inoltre gli interlocutori “che importano”».