Internet non è mai diventata lo spazio libero, aperto, inclusivo e sicuro che i suoi inventori si immaginavano. Non appena le grandi compagnie tecnologiche ne hanno intravisto le possibilità di guadagno, hanno cominciato a creare le basi per i monopòli che oggi regolano gran parte del traffico online (i nomi sono i soliti: Google, Facebook, Amazon, Apple, Microsoft). La realizzazione di quel progetto è ancora più lontana per il genere femminile, che ogni giorno deve affrontare ogni sorta di abuso, misoginia, discorsi d’odio, ecc. Del resto, negli anni in cui nasceva internet, le donne stavano abbandonando le professioni tecnologiche (dopo essere state molto presenti nei primi decenni di sviluppo dell’informatica). Quindi la loro voce è rimasta meno rappresentata proprio nella fase di progettazione e sviluppo dell’infrastruttura che ha rivoluzionato le nostre vite.

Come spiega Charlotte Jee sulla MIT Technology Review, le donne non sono attaccate solo per ciò che dicono o fanno, ma per il fatto di essere donne. Se sono persone di colore o LGBTQ+, o fanno un lavoro che dà loro visibilità come la politica o il giornalismo, le cose vanno ancora peggio. “Stai zitta, altrimenti…” è la formula con cui spesso cominciano le minacce.

La pandemia ha esacerbato il problema visto che, per forza di cose, generalmente passiamo molto più tempo di prima in ambienti virtuali. La metà delle persone intervistate dall’associazione inglese Glitch hanno riportato un abuso l’anno scorso, per la maggior parte su Twitter. Un report recente del Pew Research Center ha rilevato che il 33 per cento delle donne statunitensi sotto i 35 anni sono state molestate sessualmente online. Nel 2017 erano il 21 per cento. L’abuso talvolta è il frutto di una campagna coordinata, con utenti uomini che si trovano su alcuni forum per decidere quale bersaglio femminile attaccare sui social network. Altre volte si tratta di iniziative individuali, favorite dalla sensazione di impunità che aleggia sulle varie piattaforme.

Le minacce di morte e le molestie sono solo una parte del problema. Ci sono anche questioni meno tangibili, come la discriminazione da parte degli algoritmi. La stessa ricerca su Google Immagini in termini maschili e femminili dà risultati molto diversi. L’articolo suggerisce per esempio di cercare “school boy” e “schol girl”. Nel primo caso, salvo rare eccezioni, si otterranno immagini innocenti di ragazzini con lo zaino in spalla; nel secondo a prevalere sono immagini sessualizzate di donne in pose provocanti e abiti succinti. La cosa è evidente anche in italiano con “studente” (che in realtà comprenderebbe anche il femminile) e “studentessa”, ma un risultato curioso si ottiene cercando per esempio “prete” e “suora”. In entrambi i casi compaiono immagini da siti che vendono costumi di carnevale: nel primo però il modello ha un atteggiamento devoto o al limite amichevole, mentre nel secondo a prevalere è un archetipo di “suora sexy”. Il problema qui riguarda sia l’algoritmo di Google, che evidentemente è stato “allenato” con immagini e dati sessualmente orientati, e dal fatto che le pagine web di per sé siano pervase di sessismo (i siti che vendono i costumi di carnevale hanno deciso liberamente di usare certe foto e non altre per le “suore”).

Tra i problemi c’è anche il modo in cui i social media sono stati progettati. Com’è noto, il loro modello economico si basa sulla pubblicità, alimentata dalla raccolta di dati degli utenti. Quindi per massimizzare i profitti bisogna massimizzare il traffico, e si sa che i contenuti “incendiari” (come la sequela di insulti e minacce alle donne) sono tra i contenuti privilegiati da questa logica (nonostante le piattaforme stiano cercando, tardivamente, di darsi delle regole interne per limitare il problema).

Le campagne per un’internet femminista

Per cambiare le cose non c’è un solo approccio. La cosa più vicina a un “movimento” per un’internet femminista, spiega Jee, sono i 17 principi pubblicati nel 2016 dall’Associazione per una comunicazione progressista (Association for Progressive Communications), una sorta di Nazioni unite dell’attivismo online. I principi sottolineano che un’internet femminista sarebbe meno gerarchica, più cooperativa, democratica, consensuale e personalizzabile secondo le necessità individuali.

Per esempio, un’economia con al centro le donne non sarebbe basata sulla raccolta di dati per la vendita di pubblicità e farebbe di più per combattere l’odio e le molestie online, preservando la libertà d’espressione. Inoltre proteggerebbe la privacy e il diritto all’anonimato delle persone. Questioni che riguardano tutti gli utenti, seppure le donne in misura maggiore.

Tra le azioni concrete segnaliamo l’iniziativa della startup Herd, un nuovo social network pensato proprio per risolvere questi problemi alla radice, essendo incentrato su principi diversi dalle piattaforme che conosciamo. Le sue fondatrici, Mady Dewey ed Ali Howard, vogliono creare un’esperienza non tossica per le donne, e sperano che il progetto porti benefici a tutti gli utenti. Invece del solito feed con gli aggiornamenti, la app si apre sul proprio profilo. Non ci sono like e c’è un limite ai commenti, per evitare le campagne di trolling. Herd sarà lanciata questo mese, vedremo come andrà. Uno dei problemi dell’iniziativa sono i soldi. E questo mette in luce ancora un altro aspetto delle discriminazioni di genere, che meriterebbe un approfondimento, ossia il fatto che per le donne è molto più difficile attrarre finanziamenti.

(Foto di Yan Krukov su Pexels)

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