La rivoluzione digitale ha accelerato i cambiamenti al punto che il tempo sembra scorrere molto più velocemente, e ciò che è accaduto anche solo pochi anni fa sembra oggi un ricordo lontanissimo. Da un altro punto di vista, però, il digitale (e in particolare internet e i social network) ha annullato le distanze temporali tra gli eventi, e in certi casi è come se intere linee temporali fossero ridotte a un unico punto: il presente. Accade in particolare con la biografia delle persone, e il tema incrocia in parte quello della cosiddetta cancel culture.
Che cos’è la cancel culture
«Per “cancel culture”, traducibile con “cultura della cancellazione” – spiega il Post –, negli Stati Uniti e in generale nel mondo anglosassone si intende oggi quel fenomeno per cui gruppi più o meno organizzati di persone esercitano pressioni su un datore di lavoro, committente, collaboratore o socio perché punisca o interrompa i rapporti con un dipendente o un partner professionale per via di certe cose che ha fatto, detto o scritto. Non è detto che queste pressioni vengano necessariamente esercitate sui social network, ma è molto spesso così. […] Oggi viene usata principalmente in quei casi in cui decine, centinaia o migliaia di utenti scrivono a un’università, a un editore, a una casa di produzione cinematografica o a un’azienda, chiedendo che un professore venga allontanato, che il libro di uno scrittore non venga pubblicato, che un attore venga escluso da un film o che un dirigente venga licenziato per un determinato motivo». Ci sono opinioni favorevoli e contrarie rispetto alla cancel culture, con argomentazioni molto diverse e più o meno valide. Di per sé non è una cosa né buona né cattiva: dipende dalla causa che si persegue, dagli strumenti, dalle argomentazioni, dalle modalità che si adottano.
Emily Wilder
Nei giorni scorsi un episodio simile si è consumato ai danni di una giovane giornalista della Associated Press, licenziata pochi giorni dopo l’assunzione perché negli anni scorsi aveva espresso solidarietà verso la causa palestinese. «L’ultimo bersaglio di questi archeologi antagonisti è Emily Wilder – ha scritto Kashmir Hill sul New York Times –, 22 anni, che è stata licenziata da The Associated Press appena tre settimane di lavoro dopo che i “Repubblicani del College di Stanford” (un gruppo di attivisti universitari, ndr) hanno sottolineato il suo attivismo pro-Palestina e i suoi post sui social media quando era al college. I suoi vecchi post hanno attirato l’attenzione di figure politiche nazionali di destra che li hanno ripresi, sostenendo che le sue opinioni abbiano compromesso la capacità della sua agenzia di coprire accuratamente il conflitto israelo-palestinese. AP sostiene che il licenziamento sia avvenuto per la condotta sui social media mentre la signorina Wilder lavorava per la testata, ma secondo Wilder e i suoi sostenitori l’incidente è stato innescato dai post su Facebook risalenti ad anni prima». Il fatto si spiega con la politica di Associated Press, secondo cui a nessun giornalista del suo organico è consentito esprimere opinioni personali pubblicamente. In realtà in questo caso sembra proprio che il legame sia più con le opinioni passate di Wilder (ebrea, peraltro) piuttosto che con il suo recente impiego (che nulla aveva a che fare con la copertura delle notizie dal Medio Oriente).
Certo quella israelo-palestinese non è una questione come tante. Non appena da quell’area arrivano nuove notizie di conflitti si levano squadroni di “tifoserie” organizzate, ciascuna con le proprie argomentazioni (più o meno ragionevoli), e la discussione finisce presto su toni accesi e con entrambe le parti indisponibili a prendere in considerazione gli argomenti della controparte. Forse se Wilder avesse simpatizzato per un’altra causa meno dirimente sarebbe ancora al proprio posto. Ed è qui che agisce l’effetto di appiattimento temporale: «Parte del problema è come il tempo stesso sia stato deformato da internet – ha scritto Hill –. Tutto si muove più velocemente. Ci si aspetta che un datore di lavoro o le istituzioni rispondano immediatamente al ritrovamento di contenuti vecchi di anni. Chi eri un anno fa, o cinque anni fa, o decenni fa, è appiattito su chi sei ora. Il tempo è crollato e tutto è presente, perché ci vogliono microsecondi per recuperare il passato online. C’è poco apprezzamento per il contesto o l’evoluzione personale».
E c’è anche un altro tema, ossia quanto la consapevolezza di questo appiattimento sia un freno alla libertà di espressione. Quante volte si evita di scrivere qualcosa, condividere un pensiero, nel timore delle conseguenze? Vale per chi ha una certa esposizione mediatica, e teme che poche righe possano scatenare un polverone che non si placherà per giorni. Ma vale anche per chi quell’esposizione non ce l’ha, nel timore che forse, un giorno, qualcuno andrà a rivedere il suo passato, lo riporterà al presente, e glielo ritorcerà contro. Il rischio è di portare a tacere i pensieri più critici, per lasciare spazio a una sempre maggiore omologazione. E se al di qua della tastiera c’è un giornalista che non dice o scrive ciò che pensa per timore delle conseguenze, forse si apre anche un problema di libertà dell’informazione.
(Foto di Markus Winkler su Unsplash )
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Quando è nata Avis Legnano i film erano muti, l’Italia era una monarchia e avere una radio voleva dire essere all’avanguardia. Da allora il mondo è cambiato, ma noi ci siamo sempre.