Ci sono state molte polemiche a seguito dell’intervista pubblicata sul Corriere alla campionessa di ciclismo Maila Andreotti, che ha deciso di ritirarsi a soli 25 anni dopo avere denunciato un’atmosfera non più sopportabile all’interno del suo team. L’intervistatore ha un tono diffidente nei confronti dell’atleta, e in più punti tende a minimizzare quanto riferito. La situazione descritta da Andreotti è piuttosto complessa, con il commissario tecnico della nazionale accusato di avere atteggiamenti diversi con diverse atlete, a seconda della loro disponibilità o meno ad avere rapporti con lui. Andreotti non ha mai mostrato accondiscendenza, e si è trovata svantaggiata rispetto ad altre compagne di squadra dalle prestazioni sportive inferiori alle sue. Racconta poi di massaggiatori dagli atteggiamenti inappropriati e irrispettosi della privacy: «Mi faceva domande strane, faceva battute un po’ spinte, entrava nella mia camera senza bussare e mi diceva “spogliati” prima dei massaggi». Il giornalista ipotizza che si tratti solo di “scarsa professionalità”, ma la risposta è «No, e l’ho capito quando mi ha massaggiato solo il sedere». Tutto il pezzo segue questo copione, con l’intervistata che racconta in maniera dettagliata ciò che le è successo e le conseguenze di quei fatti sulla sua vita («A causa del ciclismo non mi sono diplomata. Ora faccio l’ultimo anno del liceo. Devo riorganizzare la mia vita»), mentre l’intervistatore minimizza e mette in dubbio le sue parole.

Un pessimo servizio di informazione

Come fa notare Luca Sofri, non conta tanto stabilire se nelle intenzioni del giornalista ci fosse o meno l’intenzione di mettere in dubbio e sminuire la credibilità della donna: «Se non fosse per quell’insopportabile passaggio “non sono vere e proprie molestie” e per il successivo ugualmente definitivo “normali rapporti sentimentali, dunque”, troverei plausibile (ho detto plausibile: fondata non lo so) un’autodifesa dell’intervistatore che delle domande precedenti dica “sono domande esposte da avvocato del diavolo per permettere all’intervistata di ribattere: e per interpretare le eventuali obiezioni di molti, per quanto stupide, e dare spazio alla loro smentita”». Ciò che conta è l’effetto di quelle parole. Fare interventi di riscrittura per rendere fruibile e ritmata un’intervista è legittimo, ma il risultato in questo caso è un pessimo servizio per chi legge.

Le responsabilità del comparto giornalistico

Un commento di Claudia Torrisi su ValigiaBlu sottolinea le responsabilità del comparto giornalistico sul modo in cui il tema delle molestie e violenze contro le donne viene trattato dai media. «Nell’incapacità di aprire un confronto su quello che succede all’interno delle redazioni – in un mondo dove, riporta Agcom nella seconda edizione dell’Osservatorio sul giornalismo, “solo il 3,9 per cento delle donne dipendenti è riconducibile a una posizione di vertice (nei ruoli di Direttore, Vice–Direttore o Condirettore), a fronte del 14,2 per cento degli uomini” e, secondo un’indagine della FNSI (Federazione Nazionale Stampa Italiana) dello scorso aprile, “l’85 per cento delle giornaliste dipendenti nei media (esclusi i periodici) ha dichiarato di aver subito molestie sessuali almeno una volta nel corso della vita professionale” – la copertura media dell’argomento non è stata mai incentrata sui presunti molestatori, ma sulle (poche) donne che hanno parlato: hanno denunciato? Perché non hanno denunciato? Hanno le prove? E perché poi gli ha mandato un messaggio? L’intervista a Maila Andreotti si inserisce in questo filone».

(Foto di Jan Kahánek su Unsplash)