Spesso ci si imbatte in articoli che consigliano di evitare il latte e i latticini perché contengono il lattosio, perché gli intolleranti a questo tipo di zucchero sarebbero “in continuo aumento”, il che dimostrerebbe la sua dannosità per la salute. In realtà, la prospettiva storica rispetto a questo fenomeno va completamente ribaltata. Se è vero che, a seconda delle zone del mondo, la percentuale di intolleranti al lattosio può arrivare a essere molto alta, o può conoscere dei trend di progressivo aumento, bisogna considerare che nel frattempo in altre parti del mondo ci sono ampie comunità in cui la maggior parte delle persone può bere latte tranquillamente.
L’errore che si commette è prendere un parametro europeo, dove la persistenza della lattasi è piuttosto alta, e farne un modello di confronto con altre situazioni su scala globale. «In Europa la persistenza della lattasi è la situazione comune – spiega il chimico e divulgatore Dario Bressanini – con punte dell’89-96 per cento in Scandinavia e nelle isole Britanniche e percentuali via via più basse andando verso sud, toccando solo il 15 per cento in Sardegna. È interessante anche notare come in quei paesi il consumo di latte fresco sia culturalmente visto come simbolo di un’alimentazione sana e nutriente».
Prima di proseguire, una piccola digressione su che cos’è l’intolleranza al lattosio, basata su quanto scritto sul sito dell’Istituto superiore di sanità, Issalute.it. Il lattosio è uno zucchero contenuto in tutti i tipi di latte animale (anche quello umano), che per essere digerito (ovvero scomposto negli zuccheri semplici glucosio e galattosio) ha bisogno di un enzima (una proteina), che si chiama lattasi. Tale enzima è presente in tutti i neonati (salvo rare eccezioni) e serve a digerire il latte materno. Durante la crescita, di solito, va scomparendo, impedendo all’organismo di operare questa scissione. Il risultato è che, negli adulti con un deficit di lattasi, il lattosio arriva in dosi eccessive nell’intestino, la cui flora batterica non riesce ad assorbirlo, dando luogo a spiacevoli effetti collaterali quali gonfiore e diarrea. Questo fenomeno è ciò che oggi chiamiamo intolleranza al lattosio (che si differenzia dall’allergia, che invece chiama in causa il sistema immunitario), e in diversa misura interessa globalmente la maggioranza della razza umana (si parla del 65 per cento delle persone). L’intolleranza può presentarsi con diversi livelli di gravità, a seconda della quantità di lattosio ingerita e del livello di deficit dell’enzima.
Per informazioni più precise vi invitiamo a consultare il sito Issalute (qui e qui). Inoltre, se sospettate di essere intolleranti al lattosio, l’invito è sempre a consultare il vostro medico di base: sarà lui a suggerire eventuali test di accertamento e strategie di cura.
Tornando agli aspetti evolutivi, gli studi sui nostri predecessori suggeriscono che, per la maggior parte del periodo di vita dell’uomo sulla terra, la scomparsa della lattasi sia stata la norma. Le prime tracce di una mutazione genetica che permettesse lo sviluppo di individui “lattasi persistenti” risale solo a circa 10mila anni fa. Trattandosi di un aspetto cromosomico, si scopre quindi che l’insorgere dell’intolleranza al lattosio non ha nulla a che fare con il consumo di latte e suoi derivati. Quest’ultimo sarà semplicemente il mezzo che fa emergere i sintomi dell’intolleranza, che dunque andrà affrontata con una variazione della dieta.
Le mutazioni genetiche, avvenute in maniera casuale e indipendente l’una dalle altre in diverse aree del mondo, hanno dato ciò che si definisce un “vantaggio evolutivo” agli individui che le possedevano. In un periodo in cui la vita era molto più complicata di ora, poter bere e assimilare il latte anche da adulti garantiva maggiori possibilità di sopravvivenza. Con la riproduzione, la mutazione si è diffusa soprattutto nelle popolazioni in cui la pastorizia aveva un ruolo centrale nella cultura e nell’alimentazione. Questo spiega dunque come mai in Africa e in Asia le zone e le etnie con una lunga storia di pastorizia arrivino a percentuali di persistenza della lattasi anche del 92 per cento. Occorre dunque ribaltare la prospettiva e accettare che il trend da seguire non è il presunto aumento di intolleranti al lattosio in limitate aree geografiche, ma l’incremento di individui “lattasi persistenti” tra homo sapiens.
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