In questi giorni ci siamo abituati (ma quanto durerà?) a parlare e sentir parlare dell’immigrazione nel suo aspetto più disperato, drammatico e tragico. C’è almeno un’altra declinazione dello stesso fenomeno. Quello di chi arriva con un regolare volo aereo, senza rivolgersi al vergognoso traffico degli scafisti; e alla dogana non viene rimandato indietro, o messo in custodia per verificare il suo status di rifugiato o semplice clandestino, perché ha documenti e cittadinanza. Si tratta di chi cerca un lavoro in Italia perché ama il nostro Paese e vorrebbe semplicemente viverci. Il caso si fa ancora più complicato se questi è impegnato da anni in attività di ricerca, e vorrebbe, altrettanto semplicemente, continuare a esercitare tale professione. Qui non è l’inflessibile indifferenza del mare a respingere, né l’applicazione di una discutibile legge sull’immigrazione, bensì il sistema lavorativo stesso. Non la deplorevole nicchia degli impieghi in nero, bensì le dinamiche implacabili di un sistema che non è in grado di accogliere una nuova risorsa che si propone col proprio bagaglio di titoli, competenze ed esperienze, e la consegna a un altro Stato, un altro continente, dove non potrà godere della bellezza che ancora distingue il territorio italiano, ma potrà condurre una vita priva di ansie, incertezze, e dove il futuro è un concetto i cui contorni si riescono ancora a definire. Di seguito, la lettera pubblicata sulla Domenica del Sole 24 Ore, inviata al direttore Roberto Napoletano da Stefania Marzano, che lascia l’Italia dopo numerosi tentativi falliti di stabilirsi nel Paese di origine dei suoi genitori -e di cui anche lei è cittadina- ma dove non può vivere.
«Caro direttore, le scrivo l’ultima lettera prima di congedarmi a malincuore da questo impossibile ma meraviglioso Paese. Sono italiana, e anche non lo sono, perché nata e cresciuta all’estero. Nel 2008, pochi giorni dopo aver discusso la tesi di PhD a Toronto, mi sono “imbarcata” prima per il Belgio e poi l’Italia, meta dei miei sogni, dove per cinque anni ho investito tutto quello che avevo (fellowships, borse di studio e tanta energia) nella ricerca, l’insegnamento, la traduzione. In Italia mi sono sempre trovata bene, malgrado un compenso minore e uno status precario: prima collaboratrice coordinata e continuativa alla Statale di Milano (6 mesi), poi assistente di ricerca a Torino (12 mesi), e per l’anno accademico 2012-2013 docente a contratto all’università di Catania, presso la facoltà di Lingue e letterature straniere di Ragusa. Un’esperienza incantevole, anche se a volte un po’ barocca, il Consorzio universitario vi impiega 22 docenti e 33 bidelli: questi, d’altronde, non toccano stipendio da mesi.
Due settimane fa, purtroppo, mi sono licenziata, anche se mi faceva luccicare la promessa (entro un anno forse due o tre) di un contratto a tempo determinato di ricercatore, ma dopo un anno di lavoro, numerosi viaggi (vivo in prossimità di Udine) e lunge notti in bed & breakfast ragusani, non potevo più sostenere il costo del mio impegno. Aggiungo accessoriamente che non ho ancora toccato una lira per il mio lavoro: i docenti a contratto, categoria sulla quale si regge in gran parte la didattica universitaria di questo Paese, sono pagati a credito formativo, a fine contratto. Nel mio caso, volge al termine il 31 ottobre, ma posso sperare di avere i miei 4.500 euro a marzo del 2014. Sono i tempi del Consorzio universitario, mi dicono in segreteria. Io, per mantenermi al lavoro e nella ricerca, ne ho spesi parsimoniosamente 800 al mese per 12 mesi.
Mi creda, le ho provate tutte per non dover partire: ho spedito dozzine di cv nelle scuole internazionali, presso case editrici (ho una lunga esperienza nell’editoria accademica francese e belga), ho cercato e trovato contratti di traduzioni, purtroppo aggratis, come dite voi. Alla fine ho lavorato in un ristorante e rigovernato i bagni in una locanda: ne vado fiera, ma ho detto basta. Avrei fatto carte false per rimanere in Italia, dove mi sento a casa, amo la gente, la natura e le stagioni, ma mi sono rassegnata a lasciare tutto e tutti e a rientrare in Canada, per lavorare. Lo stesso viaggio dei miei genitori, ma da un aeroporto del Nordest anziché dello Stretto, 38 anni dopo… Qui non riesco più a sentire la voce di un politico o la parola riforma o la parola giovani. Non lo sono più, di anni ne ho 35».
Stefania Marzano, giovedì 17 ottobre, ore 14,38.