La pandemia di coronavirus ha reso evidente in tutta la sua urgenza che in Italia c’è un problema istituzionale. L’attuale assetto, disegnato in gran parte dalla riforma del titolo V della Costituzione del 2001, ha finito per causare situazioni di stallo e favorire continui contrasti tra quanto deciso dal governo e dalle Regioni. Inoltre la competenza regionale di alcune materie (su tutte la sanità) ha dato luogo ad approcci non coordinati e a iniziative personali da parte dei presidenti di Regione. Come si è visto, questa situazione (che si protrae negli anni) ha portato ad avere sistemi sanitari molto diversi da una regione all’altra, con casi (come quello lombardo) in cui si sono create le condizioni perfette per aggravare i problemi.

Egoismi invece di solidarietà

Un equilibrato articolo di Michele Oricchio, presidente di sezione della Corte dei conti, mette in fila alcuni problemi che andranno affrontati il prima possibile per sistemare un quadro che oggi appare piuttosto disordinato. Se il sistema regionale doveva essere basato sulla reciproca solidarietà tra territori, e su una possibilità di intervento localizzata ed efficace da parte degli amministratori, questi risultati non sono stati raggiunti. «L’accentuarsi di egoismi e particolarismi rende obiettivamente più difficile una strategia unitaria, sia economica che sanitaria e sociale», scrive Oricchio. La riforma in chiave “federalista” del 2001 doveva rendere le regioni più efficienti nell’uso delle risorse, oltre che semplificare i processi decisionali e di governo territoriale. Secondo Oricchio si assiste invece a «un’onerosa moltiplicazione dei centri decisionali e di spesa che rischia di decolorare la dimensione nazionale e unitaria della pubblica amministrazione, strumentale alla soddisfazione dell’interesse pubblico». La tensione tra potere centrale e presidi locali ha portato a un corto circuito sia normativo che di gestione, con un continuo tentativo di scaricarsi reciprocamente responsabilità per le decisioni sbagliate o tardive e per l’incapacità di recuperare le risorse necessarie ad affrontare la pandemia. «In un contesto di iperproduzione normativa centrale e locale non sorprende, dunque, che ci si sia diffusamente esercitati ad attribuire ad altri la responsabilità di carenze proprie e disagi vari, quali quelli che hanno riguardato l’adeguatezza delle strutture ospedaliere e la capienza dei reparti dedicati alle malattie infettive e alla terapia intensiva, come pure che si denunciassero gravi manchevolezze nella fornitura e distribuzione di apparecchiature e dispositivi sanitari, di mascherine e materiali d’uso per contrastare il contagio, per ovviare alle quali si è andati in ordine sparso esponendosi a frequenti “incauti acquisti” e affidamenti diretti, che hanno già richiamato l’attenzione di numerose procure penali e contabili. Il frazionamento delle competenze fra i molteplici livelli istituzionali esistenti ha indebolito lo stato sia in ambito internazionale che interno, ove rischia di perdere il suo ruolo centrale di promotore del benessere della comunità nazionale, frenato dalla richiesta di “compensazioni territoriali” frequentemente avanzate nell’ambito di una necessitata permanente concertazione fra tutti i soggetti interessati (vedasi esempi di scuola, sanità, opere pubbliche e altro ancora)».

Da dove partire

Oricchio individua tre elementi critici su cui è necessario a suo avviso intervenire con urgenza: «1) l’errata riforma costituzionale e amministrativa in chiave pseudo-federalista; 2) l’errata impostazione di un sistema di pesi, contrappesi e controlli; 3) l’errata riforma della privatizzazione del pubblico impiego in una generalizzata logica “pan-aziendalistica”». La “semplificazione” che ultimamente va molto di moda (se ne parla da decenni, ma la proliferazione normativa non ha mai rallentato) parte proprio da qui, cioè da una riforma istituzionale che intervenga su quei fattori, già criticati da tempo, che hanno determinato l’incapacità delle istituzioni di intervenire con efficacia per contenere la pandemia. «È giunto il tempo, dunque, di ripensare la riforma costituzionale del 2001, che ha enfatizzato il ruolo delle regioni senza considerare il fatto obiettivo che sono troppo piccole per legiferare e troppo grandi per amministrare: il paese ha bisogno di una reale semplificazione dell’amministrazione centrale e locale in grado di garantire una spesa pubblica efficiente capace di far ripartire l’economia, svincolata da condizionamenti localistici e finalizzata a soddisfare l’interesse generale». Ciò che ci chiediamo, un po’ disillusi, è se l’attuale classe politica sia in grado di gestire una riforma costituzionale così delicata e determinante per il futuro del paese. Ci spiace mostrarci così scettici, ma purtroppo di elementi per dubitare ne abbiamo fin troppi. Siamo sempre pronti a ricrederci, comunque.

(Foto di Mauricio Artieda su Unsplash)