Perché tanti italiani emigrano? In cosa differiscono le nuove emigrazioni da quelle del passato? Siamo sicuri che il cliché dei “cervelli in fuga” abbia un reale fondamento? Domande di grande attualità, alle quali cerca di rispondere il saggio Quelli che se ne vanno. La nuova emigrazione italiana (Il Mulino), di Enrico Pugliese. Paolo Barcella ne fa una sintesi sul sito CheFare, di cui risportiamo un estratto.
[…] 1 – Il nuovo ciclo dell’emigrazione italiana, prevalentemente diretto verso la Gran Bretagna, la Germania, la Francia e la Svizzera, è di problematica quantificazione. Gli istituti di rilevazione italiani, basandosi sulle cancellazioni anagrafiche, propongono un numero di partenze molto inferiore rispetto a quello indicato dai paesi di immigrazione. Basti l’esempio tedesco: mentre secondo l’ISTAT, tra il 2012 e il 2016, hanno lasciato l’Italia per la Germania 60.700 persone, l’Ufficio Federale tedesco ha rilevato 274.000 arrivi. Se chi lascia l’Italia spesso non provvede alla cancellazione anagrafica in tempi rapidi, si iscrive invece presso i registri stranieri dal momento che si tratta di un’azione necessaria per usufruire dei servizi sul territorio.
Come in passato, la gran parte degli italiani è molto giovane e si colloca in prevalenza nella classe d’età che va dai 18 ai 34 anni. Raramente, però, i giovani emigranti del passato non avevano un’esperienza professionale pregressa, mentre oggi è molto frequente. Il 70 per cento degli emigranti non possiede un titolo di studio superiore al diploma. Ovvero, la retorica dei «cervelli in fuga», con sua rappresentazione del fenomeno odierno come migrazione di cervelli da contrapporre alle migrazioni di braccia del passato, si deve da un lato alla polarizzazione dell’attenzione su un segmento minoritario rispetto al totale – il 30 per cento di laureati – e dall’altro alla rimozione contestuale di due aspetti: il livello di scolarizzazione medio nell’Italia odierna è enormemente cambiato rispetto alle stagioni precedenti gli anni Settanta; anche nei flussi migratori mediamente meno scolarizzati del secondo dopoguerra, erano presenti quote consistenti dei soggetti più istruiti e dotati di competenze professionali del loro territorio, proprio perché chi partiva e chi parte sono spesso individui più forniti di risorse.
I settori professionali in cui la migrazione italiana principalmente si concentra sono peraltro ancora quelli tipici delle migrazioni «proletarie»: in Germania, per esempio, il settore dell’industria, con i suoi 57.000 addetti, è ancora quello dove si trovano più cittadini italiani, mentre al secondo posto si colloca la gastronomia, con 40.000 addetti. Quest’ultimo settore è cresciuto tra il 2008 e il 2015 di ben 15.000 unità e comprende “i lavoratori di mense, bar, ristoranti e quant’altro, ricettacolo dell’occupazione più povera e precaria” [p. 76].
Del resto, uno dei fattori che complica la quantificazione del fenomeno è proprio quello del lavoro precario, generalmente sottorappresentato in quanto i mini jobs, lavoretti da poche centinaia di euro, non sono registrati nelle statistiche. E sebbene non sia immediato “vedere cosa abbiano in comune in termini di classe il giovane occupato come barista o cameriere in un ristorante senza garanzie di stabilità con il giovane accademico, anche se altrettanto privo di prospettive di stabilità, o ancora con il giovane che svolge attività da colletto bianco in aziende commerciali o dell’area del turismo” [p. 82], certamente la condizione precaria è un fattore diffuso e unificante la condizione dei giovani migranti italiani.
2 – La percentuale di emigrate italiane è nei flussi contemporanei molto più consistente e diffusa rispetto al passato, intercettando in questo senso un cambiamento sociale più generale. Sebbene anche nei flussi precedenti si presentassero quote di donne sole – ossia in movimento non al seguito di un ricongiungimento familiare – queste erano in proporzione meno rilevanti, spesso molto giovani e dipendevano in modo molto significativo dalle specifiche richieste di manodopera femminile nei paesi di approdo. Oggi il 45 per cento di quelli che se ne vanno sono donne e, come ricorda Pugliese, “soprattutto quelle più scolarizzate si muovono indipendentemente nelle nuove catene migratorie, affidandosi anche ai nuovi sistemi di comunicazione.
L’emigrazione femminile per studio e soprattutto per lavoro è autonoma, segue le stesse traiettorie, si indirizza verso le stesse destinazioni e per molti versi si colloca nelle stesse condizioni professionali di quella maschile appartenente alla stessa generazione” [p. 52]. Se nell’esperienza migratoria italiana del passato l’emigrazione delle donne assumeva spesso i connotati di un processo di liberazione e di emancipazione dai contesti rurali e dai sistemi gerarchici patriarcali dominanti nelle loro regioni d’origine, l’emigrazione delle donne oggi è prodotto di un’evoluzione di quegli stessi contesti e della società italiana più in generale.
Nella nuova emigrazione è difficile trovare donne che partono come casalinghe al seguito dei mariti, magari con l’intenzione di conservare tale status. Più frequenti sono casi come quello di Maria: “Vengo dal sud della Sardegna. Sono figlia di una casalinga e di un operaio. In Italia ho fatto diversi lavori. Cameriera, bracciante, commessa in un negozio di tabacchi, guida turistica, educatrice per bambini, ecc. Per otto anni ho lavorato in Italia e non ho mai avuto un contratto di lavoro, a parte durante quei pochi mesi in cui ho lavorato come guida turistica con contratto a progetto. Ho lasciato l’Italia per questo motivo. Prima di partire ho chiesto opinioni agli iscritti del gruppo Facebook «Italiani a Manchester» e poi ho deciso (Maria, 32 anni, originaria della provincia di Cagliari)” [p. 96].
(Foto di chuttersnap su Unsplash)