Tra gli sport preferiti, noi italiani abbiamo quello di generalizzare su noi stessi. Di volta in volta ci definiamo “brava gente”, oppure “popolo di poeti, di artisti, di eroi”, ecc. Più spesso tendiamo a dircene di tutti i colori, a trovare il modo di criticare ogni idiosincrasia collettiva, che allo stesso tempo ci imbarazza e ci fa sentire uniti. Tutto questo, sia chiaro, finché parliamo tra connazionali, perché invece quando siamo all’estero (o quando parliamo con uno straniero che ha l’ardire di ironizzare su una qualche “italianità”) siamo sempre pronti a difendere a spada tratta la dignità dei nostri concittadini, e quindi anche la nostra. Tutti mafiosi? Macché, quella è una piaga sociale di cui dobbiamo liberarci, non ci rappresenta. Inaffidabili e pasticcioni? Assolutamente no, è un’idea sbagliata che trapela da alcuni casi resi celebri dalla stampa, ma non siamo mica tutti così.
Certo è che, a voler identificare a tutti i costi un concetto di italianità che abbia una qualche traccia di collegamento con la realtà, ci si deve scontrare con alcune notizie di cronaca che di volta in volta confermano o smentiscono i luoghi comuni più diffusi. Difficile conciliare per esempio due notizie giunte da Reggio Calabria e Bologna nei giorni scorsi. La prima vede prendere corpo l’immagine più abietta dell’italiano come concentrato di furbizia, immoralità, egoismo e sfacciataggine. Un caso che ha coinvolto un centinaio di persone, di cui 17 arrestate, dipendenti del comune calabrese. Alla faccia di chi un lavoro non ce l’ha e lo cerca come un rabdomante in ogni angolo, gli indagati avevano messo in piedi un sistema che potremmo definire di badge sharing, per cui uno timbrava i cartellini per tutti, mentre gli altri arrivavano in ufficio ore dopo l’orario previsto, o ne uscivano in largo anticipo. Ma c’era anche chi non ci andava proprio. Pazienza, avrebbe recuperato poi timbrando il cartellino di qualcun altro nei giorni successivi. A suo modo, un sistema basato sulla solidarietà. Peccato però che gli indagati risultassero tutti puntualmente in servizio, anche quando non lo erano, a spese del Comune e quindi della collettività.
Poi uno gira pagina e legge di un disoccupato 45enne di Bologna, e siamo alla seconda notizia, che trova un portafogli con dentro 450 euro e restituisce tutto ai carabinieri. C’erano anche i documenti di una donna di 70 anni, quei soldi erano la sua pensione di anzianità. Che dire, chapeau davanti al nobile gesto. Se è ormai chiaro che la guerra tra poveri è in atto a causa della crisi economica, episodi del genere sono la prova che c’è ancora chi si impegna per mantenere distesi gli animi e favorire un clima sociale di solidarietà (quella virtuosa, non come nel primo caso). Chiudiamo con una terza notizia, giusto per gettare l’ultimo seme di confusione in questo tentativo di discernimento del concetto di italianità. Stavolta i fatti riguardano un tifoso del Genoa, Fabrizio, che, raccontando a tutti che il figlio Matteo ha bisogno di un trapianto di un polmone, innesca una raccolta fondi che in poco tempo raggiunge i 70mila euro. Peccato (o meglio, per fortuna per il piccolo Matteo) che non ci sia nulla di vero, il figlio non è affetto da alcuna patologia incurabile e quei soldi servivano a Fabrizio per pagare alcuni debiti. Una vera e propria truffa, che mette a nudo qualità e difetti che tutti noi in misura diversa incarniamo. Grande di certo la rabbia per chi è stato raggirato mentre pensava di donare i propri soldi per una causa giusta, ma chi di noi può affermare che mai, in nessun caso nella vita, arriverebbe a fare una cosa del genere? In conclusione, le generalizzazioni sono sempre pericolose e fuorvianti, ed essere italiani vuol dire essere un po’ dipendenti del Comune di Reggio Calabria e un po’ disoccupati e gentiluomini, un po’ tifosi generosi, ma anche un po’ Fabrizio.