La parola è uno strumento potentissimo, che può trasformarsi in arma per motivare guerre se rivestita di intenti diabolici, e in portatrice di pace quando a usarla è chi cerca il bene dell’uomo. L’argomento, ancorato all’attualità di ogni epoca, e quindi anche della nostra, è stato affrontato ieri dal latinista ed ex rettore dell’Università di Bologna Ivano Dionigi, nel corso di una lezione rivolta a un pubblico di giornalisti. Per Dionigi (che ha un libro in uscita, Il presente non basta) le risposte (o, meglio ancora, le domande) più interessanti per analizzare il ruolo della parola nella società di oggi vanno ricercate nei classici. Questioni che ci sembrano attualissime e inedite sono in realtà interrogativi che già si sono posti i più antichi maestri della parola di cui siamo a conoscenza e a cui siamo storicamente legati, quelli greci e latini.

Retorica, eloquio, dissertazione, discorso, sermone, sono tutte parole che gravitano attorno all’uso della parola, ma ne definiscono sfumature e funzioni diverse. L’invito, per evitare di restare impantanati nel cimitero dei “vocaboli”, che per Dionigi giacciono inerti negli ossari che chiamiamo dizionari, è a ritrovare il contatto con il significato (che invece è una cosa viva, che si muove e cambia) delle parole, a cui si accede attraverso l’etimologia e la filologia. I significati delle parole ci dicono qualcosa anche del contesto in cui sono nate, spesso società non ancora inurbate, dove il rapporto con la natura prevale. Per esempio quando ci riferiamo a un dis-astro, stiamo facendo riferimento a un evento che soffre della contrarietà degli astri. In questa concezione i guai arrivano dall’alto, lontano da noi. È ancora col naso all’insù che l’uomo con-sidera, ossia si trova in compagnia degli astri, dei corpi siderali. Ma ecco che quando smette di contemplarli si accende il de-siderio, ossia la voglia e la tensione verso gli astri. Spesso si parla di com-petere come di una corsa solitaria verso un risultato, che in economia può essere il profitto. Ma nel suo significato più profondo, competere significa andare insieme in una certa direzione.

È certamente la politica l’ambito in cui la parola è rivestita del compito più gravoso, quello di veicolare un messaggio le cui conseguenze possono, nei casi più estremi, scatenare guerre oppure portare alla firma di trattati di pace. Tra i più noti oratori dell’antica Roma vi è Cicerone, che appena ventenne si chiedeva se fossero maggiori i danni provocati dalla parola, oppure i benefici. Egli vedeva guerre, morti e distruzione causati da disertissimi viri, e per contro pace, prosperità e opere costruttive realizzate grazie a eloquentissimi viri. Sempre di uso della parola si tratta, ma il disertus è per Cicerone il suo utilizzo in chiave demagogica, per perseguire non gli interessi del popolo ma quelli dei pochi che detengono il potere. La eloquens è la pratica che collega la conoscenza al parlar bene, e che identifica la capacità di “trovare il grande nel piccolo”. Un uso etico della parola, dunque, che ne risveglia un potere addirittura divino secondo un altro importante oratore, Tacito. Lucrezio eleva a divinità il greco Epicuro perché ha affrontato e tenuto a bada le paure e i limiti (i mostri) dell’uomo con la parola e non con le armi («dictis, non armis»), a differenza delle “imprese” di Ercole, che si è limitato a sconfiggere bestie feroci con la forza fisica.

Nella parola di oggi, inghiottita dalla velocità, che si fa merce (slogan), bisogna difendersi dall’ovvio, ossia ciò che si presenta ob via: la parola che ti viene incontro, che ti sceglie invece di essere scelta dall’individuo (riflessione di Frontone, altro oratore romano), perché si presenta spontaneamente al pensiero. La parola che ha significato è impensata, insperata: sorprende l’uditore perché è imprevista, è stata scelta con un preciso intento comunicativo. Anche questo è un problema molto attuale: quando si sentono certi politici ripetere formule vuote, sminuendone ogni volta il significato profondo, allora è il momento di insospettirsi, di mettersi in allerta. Cosa vuole da noi colui che parla di flessibilità mentre intende disoccupazione, di guerra preventiva quando intende aggressione, di corridoio di pace quando intende intervento militare? Ogni guerra si prepara cambiando prima il significato alle parole (Tucidide), dunque bisogna diffidare di chi contribuisce a preparare questo terreno, e anzi bisogna stare attenti a non essere noi stessi inconsapevoli ripetitori di un messaggio volutamente distorto: «Il depredare, il massacrare e il rapinare con falsi nomi li chiamano impero (imperium), e dove fanno il deserto lo chiamano pace (pax)», scriveva Tacito.

I partiti oggi non sono più di parte: non hanno più l’obiettivo di rappresentare e difendere una parte della società, ma cercano di annacquare il proprio messaggio fino a raggiungere la totalità. Bisogna diffidare da tutto ciò che si propone come nuovo, ammonisce Dionigi, non perché non bisogna cambiare, ma perché oggi tutti propongono di “voltare pagina”, inserire una discontinuità rispetto al passato, dare un nuovo inizio. Questo atteggiamento nasconde l’incapacità di coniugare ciò che è notum (noto) a ciò che è novum (nuovo). Per innovare si deve prima essere in grado di stare nel solco della tradizione (che non è adorazione delle ceneri, ma salvaguardia del fuoco), e da lì muoversi.

E a chi si chiede a cosa serva il latino oggi, Dionigi risponde con un esempio molto recente. All’indomani della strage di Parigi del 13 novembre 2015, in una manifestazione di protesta contro le violenze comparve per le vie della capitale francese uno striscione che recitava “Fluctuat nec mergitur” (“È sbattuta dalle onde ma non affonda”). È il motto medievale della città, e il fatto che sia stato ripreso dopo fatti così traumatici e sanguinosi dimostra tutta la forza della parola che rinuncia a farsi slogan.

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