La scure dei tagli è arrivata a colpire uno dei più importanti festival musicali in Italia: Umbria Jazz Winter. «“Il jazz non è espressione diretta della cultura italiana” si legge nella lettera inviata dal Ministero dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi agli organizzatori del festival -riporta il sito Umbrialeft. Una motivazione alquanto strana e poco accettabile visto che per ben 11 edizioni il Ministero ha sempre finanziato il festival e solo oggi si rende conto che “il jazz non è italiano”». La rassegna dovrebbe svolgersi a Orvieto tra il 28 dicembre e il primo gennaio 2013, ma a questo punto il suo destino diviene incerto. Come lo è quello di tanti altri festival che potrebbero essere tacciati di non rispettare il criterio di “italianità”.

Criterio tutto da dimostrare, perché a nostro avviso le parole di Ornaghi, oltre che avventate, sono semplicemente sbagliate. Spesso si ha del jazz (di recente ritenuto patrimonio dell’umanità da parte dell’Unesco) un’idea legata a un certo periodo della sua storia. Quello dei club di New York, quando sulla 52esima musicisti come Charlie Parker, Dizzy Gillespie e Bud Powell inventavano quella che sarà una delle musiche più prolifiche mai concepite, che loro non chiamavano jazz, bensì bebop. Il jazz non nasce lì, ma negli Stati Uniti del Sud, in quella New Orleans che diede i natali a un personaggio fondamentale come Louis Armstrong.

Anche l’aneddotica è ingenerosa verso Ornaghi, dato che il primo disco di jazz fu inciso nel 1917 per mano della Original Dixieland Jazz Band, guidata dal cornettista Nick La Rocca, figlio di emigrati siciliani (il padre era di Salaparuta, la madre di Poggioreale, entrambi in provincia di Trapani). È vero che, pur essendo un immigrato, La Rocca aveva un grande vantaggio rispetto ai musicisti di jazz che animavano i locali di New Orleans: era bianco. Gli afroamericani non avevano purtroppo accesso alle sale di incisione in quegli anni, e molta della loro musica (alla quale i bianchi si ispiravano, spesso scopiazzando) non ci è pervenuta per questa ragione. Ma il succo del discorso non cambia: il jazz è e resterà sempre una musica meticcia, che ha saputo nutrirsi del contributo di tutte le culture che si sono incontrate a New Orleans, e poi via via nelle altre zone degli Stati Uniti e del mondo. E il contributo italiano non è di secondo piano.

Facendo un salto nel presente, risulta ancora più miope la definizione del ministro. Oggi l’Italia esprime musicisti di jazz di fama internazionale, che ci rendono una tra le nazioni più attive in questo genere. Inutile citare i nomi di Stefano Bollani, Enrico Rava, Gianluca Petrella, Paolo Fresu. E si potrebbe continuare con Danilo Rea, Franco D’Andrea, Roberto Gatto, o il giovanissimo Francesco Cafiso -che nel 2009, a soli vent’anni, suonò a Washington davanti a Barack Obama per il Martin Luther King junior day. Artisti invitati nei più grandi festival europei e mondiali a rappresentare non solo se stessi, ma anche quella scuola italiana che il mondo ha imparato a conoscere e rispettare. Sono solo alcune brevi riflessioni che ci vengono in mente a leggere che «Il jazz non è espressione diretta della cultura italiana». La sostanza è che ragionare per luoghi comuni, quasi sempre, conduce fuori strada.

Aggiornamento: Il sito del Mibac ha pubblicato una nota che smentisce le frasi attribuite al ministro Lorenzo Ornaghi. «Il Ministro Ornaghi non ha mai inviato una lettera a sua firma a Umbria Jazz». D’altra parte si precisa comunque che Umbria Jazz Winter non avrà accesso ai fondi ministeriali: «L’istanza presentata dalla “Fondazione di Partecipazione Umbria Jazz” di Perugia non è stata ammessa all’esame qualitativo della Commissione Musica in quanto priva del requisito di cui all’art. 4, comma 2, del Decreto ministeriale 9 novembre 2007 (carenza dei tre anni di attività dalla data di costituzione dell’organismo richiedente il contributo, alla data della domanda fissata al 31 gennaio 2012) ed altresì del requisito di cui all’art. 12, comma 1, lett. b, del medesimo Decreto (esclusività della figura del Direttore artistico che risulta in comune con l’Associazione Teatro Mancinelli di Orvieto). Per lo stesso ultimo motivo alla Associazione orvietana è stato conseguentemente negato il contributo».