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Dalle parti di Palazzo Chigi si festeggia l’approvazione della legge delega sulla riforma del lavoro, nota come Jobs Act, passata ieri al Senato con 166 voti favorevoli e 112 contrari. Tutto ciò che ruota attorno a questa legge è ricco di contraddizioni, a partire proprio dalla procedura con cui la norma è stato approvata. Il governo ha infatti posto la “questione di fiducia” sul testo approdato all’aula del Senato (dopo che aveva già fatto la “navetta” dalla Camera, subendo alcune modifiche), in modo che questo lo approvasse così com’era. Ecco perché una minoranza del Partito democratico, contraria alle misure annunciate dal governo per la riforma in oggetto, ha dichiarato di votare a favore «per senso di responsabilità». Nessuno ha fatto notare (almeno nella rassegna stampa che abbiamo analizzato) come tale procedura sia del tutto anomala. La legge delega è infatti un’iniziativa parlamentare, con la quale le Camere indicano all’esecutivo «principî e criteri direttivi», un limite temporale e «oggetti definiti» su cui varare i decreti (che prendono il nome di delegati, o legislativi, o attuativi), come recita l’articolo 76 della Costituzione. È quindi molto inusuale che il governo ponga la questione di fiducia non su provvedimenti che esso stesso propone (ossia i decreti-legge, art. 77), ma su un testo che parte da un altro organo dello Stato. È già ben nota l’abitudine dei governi di esagerare pesantemente nell’emanazione di atti aventi forza di legge, che il Parlamento è chiamato a convertire entro 60 giorni, pena la loro perdita di efficacia, “blindandone” i contenuti con la questione di fiducia. Quello di ieri è però un colpo ulteriore nel progressivo svuotamento di poteri del Parlamento da parte del potere esecutivo.

Detto questo, entriamo invece nel merito del testo, avvalendoci dell’analisi pubblicata da Paolo Pini su Sbilanciamoci.info: «Si afferma che occupazione stabile e posto fisso sono residui di pensiero novecentesco: i costi dei diritti non possono più essere a carico dell’impresa, ma trasferiti sul mercato con l’aiuto dello Stato che deve accompagnare le persone favorendone l’occupabilità. Ma si sostiene anche che l’accesso ad una occupazione temporanea e l’opportunità di un contratto a tutele progressive sono i porti di ingresso per quell’occupazione stabile e ben retribuita che può essere assicurata alle nuove generazione solo con il trascorrere del tempo. Questa è una evidente contraddizione. Se si nega con la prima affermazione la fattibilità di un lavoro stabile e tutelato perché non siamo più nel secolo breve ma nell’economia globalizzata del nuovo millennio in cui il capitale è libero di andare dove più conviene e la competizione è oggi su scala globale, non si capisce come possa essere contemporaneamente vera la seconda affermazione, ovvero che questo lavoro stabile e tutelato possa essere comunque raggiunto ma solo dopo la necessaria transizione in una fase di precarietà». Il passaggio è illuminante.

Dando una grande rilevanza alla riforma del lavoro come passaggio obbligato per la ripresa dell’economia, il governo sta provando a convincere l’opinione pubblica che cambiare i contratti (riducendo tra l’altro le tutele per i lavoratori neo assunti) sia un’azione necessaria per innescare la ripresa dell’economia. Invece dovrebbe essere il contrario, è evidente: se il mercato funziona, il lavoratore non vive con angoscia la flessibilità e la possibilità di perdere il lavoro, perché sa che in breve tempo riuscirà a ricollocarsi altrove. È quando l’economia arranca, come in questi anni, che le tutele per i lavoratori sono l’unica garanzia di non finire in povertà. Secondo Wired i decreti delegati introdurranno l’«Eliminazione della cassa integrazione per i dipendenti nel caso in cui l’attività aziendale (o una sua parte) venga cessata definitivamente e non esistano concrete possibilità di proseguimento». Anche qui un’evidente riduzione delle tutele per i lavoratori, che invece di poter usufruire di ammortizzatori sociali in un momento di grande difficoltà per l’azienda che li ha sotto contratto, si ritroveranno così semplicemente a casa, con l’affanno di non avere alcun aiuto per affrontare le spese che, ovviamente, non stanno ad aspettare che essi trovino un altro lavoro. Queste, in breve, le premesse. Attendiamo nelle prossime settimane l’approvazione dei decreti attuativi, che ci diranno “di che morte morirà” il lavoro in Italia.