Le riforme che si propongono di essere strutturali hanno sempre bisogno di tempi lunghi per essere valutate. Non fa eccezione il cosiddetto Jobs Act, la legge sui contratti di lavoro introdotta dal governo di Matteo Renzi nel 2015, che ha introdotto il contratto a tutele crescenti con l’obiettivo di favorire l’assunzione a tempo indeterminato di giovani. Ora che sono scaduti (o si sono attenuati) i meccanismi di contribuzione previsti dalla norma, si può cominciare a fare qualche considerazione sui suoi effetti sul mercato del lavoro, soprattutto per quanto riguarda i giovani. Hanno provato a farlo gli economisti Francesco Beraldi e Ivan Lagrosa su Lavoce.info, proviamo a vedere cosa hanno riscontrato.
Nel complesso, i dati sulle assunzioni (suddivisi in base alle tipologie di contratto e alle fasce d’età) sembrano dire che dopo una fase iniziale di spinta alle assunzioni soprattutto di giovani, le aziende sono tornate a utilizzare ampiamente i contratti a tempo determinato o di apprendistato, e anche il fattore anagrafico ha perso importanza. Come misura temporanea il Jobs Act ha avuto dunque gli effetti sperati, ma una volta finiti gli sgravi fiscali per le aziende la tendenza è andata verso contratti meno onerosi in termini di tasse e meno impegnativi nella scadenza. Osservando l’andamento delle assunzioni a tempo indeterminato rispetto agli anni precedenti alla riforma, non è cambiata la tendenza ad avere sempre meno giovani assunti con quel tipo di contratto. «Se guardiamo alla tipologia contrattuale con cui classi di età diverse sono impiegate – si legge nell’articolo –, si vede come tra il 2013 e il 2016 la percentuale di giovani fra i 15 e i 24 anni occupata con un contratto a tempo indeterminato sia diminuita di circa un punto percentuale, passando dal 40 al 38,8 per cento. Di grandezza simile, ma di segno opposto, invece, il trend della percentuale dei giovani impiegati con contratti a termine, salita dal 44,5 per cento del 2013 al 46,9 per cento nel 2016».
Come molti temevano, la fine del regime di agevolazione per le aziende non ha innescato tendenze nuove nelle politiche aziendali, che (vista anche la debole ripresa economica) hanno puntato più a contenere i costi che a investire in risorse umane con un progetto di lungo termine. «I tassi di trasformazione dei contratti precari in contratti stabili, dopo un aumento che nel 2015 si è rivelato più marcato per la fascia di età più giovane, è tornato nel 2016 a un livello paragonabile a quello del 2013: 7,1 per cento per la fascia 15-24 anni e 15,3 per cento per la fascia 45-54 anni. Non sembra quindi che la più ampia quota di contratti precari tra i più giovani trovi un corrispettivo in un più alto tasso di trasformazione verso l’indeterminato». Il ricorso all’indeterminato sembra essersi fatto ancora più raro che nel periodo precedente alla riforma, dunque una volta esaurito l’effetto della legge il mercato non solo è tornato ai livelli precedenti, ma si è addirittura spostato sul precariato più di prima. «Se nei primi quattro mesi del 2017 il numero complessivo delle assunzioni di giovani è risultato più alto di quello dello stesso periodo dei tre anni precedenti, il quadro si fa meno roseo quando si considera la tipologia contrattuale che ha trainato l’aumento. Il numero dei contratti a tempo indeterminato è risultato non solo del 38 per cento più basso rispetto al 2015, ma anche inferiore dell’8 per cento rispetto al 2014, anno precedente l’introduzione della riforma».
I dati di questo grafico dimostrano che effettivamente la decontribuzione del 2015 ha favorito i giovani lavoratori rispetto ai più anziani, quindi il risultato di breve termine è stato centrato. Come si può vedere, l’aumento delle assunzioni a tempo indeterminato è stato molto più marcato per le fasce fino a 24 anni e tra i 25 e i 29 anni. Al crescere dell’età, l’incremento si riduce anche del trenta per cento. La colonna rossa del 2016 arriva però più in basso proprio per i giovani rispetto agli over 50, quindi la contrazione dell’indeterminato si è sentita di più proprio sulla fascia che si voleva togliere dal precariato. La conclusione dei due economisti è dunque che sul breve termine (come del resto ci si aspettava) il Jobs Act abbia effettivamente portato a dei risultati, ma una volta esauriti gli incentivi per le aziende il suo effetto positivo si è fermato, a svantaggio soprattutto dei più giovani. «La decontribuzione così come prevista nel 2015 e nel 2016 può essere ritenuta un’opportuna misura anticiclica, e quindi transitoria. Se la finalità è però quella di ridurre la persistente segmentazione per fasce d’età, allora un provvedimento appropriato può essere la decontribuzione selettiva, sulle classi di età più giovani».
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