Tra gli argomenti raccontati nel discorso politico-mediatico estivo, manca quasi totalmente la questione dei lavoratori immigrati sfruttati nei campi del Sud Italia, arrivati per chiedere asilo (o in cerca di migliori condizioni) e rimasti intrappolati nel sistema del caporalato. Alcuni giornali si stanno occupando di raccontare quanto ogni anno si ripete nelle campagne della Calabria e della Puglia. Dopo il nome di Rosarno (Reggio Calabria), da qualche anno si è aggiunto quello di Nardò (Lecce), come centro nevralgico dello smistamento di lavoratori in tutto il Meridione. Un centro che ha assunto i contorni di un vero e proprio ghetto, dove risiedono ammassate centinaia di persone provenienti da varie aree dell’Africa.

Da quelle parti, come racconta Chiara Spagnolo su Repubblica, «I più fortunati racimolano 30 euro a giornata, qualcuno molto meno, considerato che la raccolta del pomodoro viene pagata circa 3,5 euro a cassone (ciascuno da 350 chilogrammi) e le angurie 5 euro all’ora. Contratti non ne ha firmati nessuno». Da questi compensi, già miseri, bisogna togliere i costi giornalieri che, come riporta Tiziana Colluto sul Fatto Quotidiano, ammontano a «5 euro per il trasporto obbligatorio e 3,50 euro per acqua e panino, il pizzo ai caporali. Soli, sui terreni, è inutile presentarsi».

Qualche iniziativa per arginare almeno gli aspetti più drammatici di questo fenomeno c’è stata. Il sindaco di Nardò, Pippi Mellone, ha firmato il 14 luglio un’ordinanza che vieta il lavoro nei campi dalle 12 alle 16. Le multe per chi trasgredisce possono arrivare a 500 euro. Il senso del provvedimento è ovviamente quello di evitare ai lavoratori di faticare sotto il sole nelle ore più calde della giornata. Per quanto riguarda l’emergenza residenziale e sanitaria, è stato allestito un campo con 22 tende (a spese principalmente del Ministero dell’interno), che però riesce ad accogliere solo una piccola parte delle persone che affollano l’area nei mesi estivi. Come spiega Spagnolo: «Nel campo, però, trovano posto 132 persone a fronte di almeno 400 che orbitano nell’hinterland neretino e da quest’anno si spingono a lavorare fino al Brindisino, a Ginosa, al Metapontino. Per gli altri resta il ghetto, proprietà comunale in cui neppure gli addetti alla raccolta della spazzatura vogliono mettere piede, limitandosi a svuotare i tre bidoni vicino al cancello. Dentro, per forza di cose, i rifiuti sono ovunque, i servizi igienici non esistono e un odore nauseabondo ammorba l’aria. Nelle casupole costruite con materiale di risulta si cerca di mantenere una parvenza di dignità, ma non è facile quando il pavimento è la terra rossa e abiti e suppellettili vedono l’acqua di rado. I gruppi sono divisi per etnie e poi anche per tribù – spiega Angelo Cleopazzo di Diritti a Sud – ognuno con un capo che mantiene l’ordine e stempera i conflitti».

Una situazione degradante e rischiosa per chi ci vive, che potrebbe da un momento all’altro degenerare in eventi drammatici e sanguinosi. Purtroppo, servono quasi sempre questi ultimi per scalare le prime pagine dei giornali e arrivare a spingere la politica a intervenire con investimenti importanti. Eppure è una situazione che si conosce bene, perché si ripresenta uguale (e sempre più grave) da anni, ma spesso la sua gestione viene affidata agli sforzi delle istituzioni locali e delle associazioni. Come ha detto Gregorio Manieri, operatore del Progetto presidio della Caritas, «Ce ne occupiamo dal 1997 e già allora dicevamo che andavano cercate risposte strutturali. Come si fa a pensare che sia emergenza un fenomeno che si ripresenta uguale tutti gli anni?». La domanda è retorica fino a un certo punto. Se la politica davvero “pensa” che sia emergenza, vuol dire che non conosce questa realtà, e allora dovrebbe interrogarsi sulle proprie competenze. Se invece non lo pensa, ma comunque si comporta come se lo fosse, allora le responsabilità sono ancora più gravi, perché acuite dal fatto di trascurare un’area del Paese che avrebbe urgente bisogno di progetti e risorse.

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