Il Parlamento italiano sta discutendo in questi giorni una proposta di riforma del diritto di cittadinanza che prevederebbe «che possa chiedere di diventare cittadino italiano il minore nato in Italia da genitori stranieri, purché abbia frequentato per 5 anni uno o più cicli scolastici presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione». Si tratta di uno dei numerosi tentativi fatti negli ultimi anni di mettere mano a un tema che proprio la politica rende più divisivo di quanto probabilmente non sia in realtà.

Bisogna ricordare infatti che oggi una persona nata in Italia da genitori stranieri può chiedere la cittadinanza solo al compimento dei 18 anni, e se non lo fa entro un anno perde ogni possibilità di inoltrare la richiesta in seguito. Come ben sappiamo però i tempi della burocrazia italiana sono lunghi, e quindi prima che la richiesta venga esaminata possono passare anni. Un tempo durante il quale la persona deve fare i conti con una serie di limitazioni, inclusa per esempio l’impossibilità di partecipare a bandi pubblici, o la possibilità di essere “rimpatriata” in un paese in cui magari non ha mai messo piede in tutta la sua vita. Si tratta di una vera e propria forma di discriminazione istituzionalizzata che colpisce persone che in molti casi parlano italiano sin dalla nascita come prima lingua, e talvolta nemmeno parlano la lingua del paese di provenienza.

Spesso chi sostiene politiche più restrittive su questi temi porta come argomentazione un’idea di “comunità” intesa come spazio chiuso, conservativo, da preservare escludendo il più possibile ogni forma di scambio (percepito come “contaminazione”). Ma la crescita di una comunità sana e coesa è possibile solo se questa è composta da persone che si sentono pienamente parte di quel corpo sociale. Rendere la vita difficile alle persone che nascono e crescono in quella società con una serie di paletti burocratici volti a escluderle da una serie di opportunità, diritti e prospettive è il modo migliore per andare nella direzione opposta, favorendo uno scollamento della comunità che si vuole proteggere.

Inclusività dovrebbe essere la parola chiave da applicare verso gli 877mila studenti con cittadinanza non italiana presenti nel nostro sistema scolastico (dati Save The Children relativi all’anno scolastico 2019/2020).

Per quanto riguarda la riforma in fase di discussione, denominata “Ius Scholae”, un sondaggio realizzato da Quorum/Youtrend rileva che mediamente le persone sono scarsamente informate sui suoi contenuti, ma una volta a conoscenza la maggior parte si dichiara favorevole, con buone percentuali anche tra gli elettori dei partiti più conservatori: «Gli italiani non conoscono i criteri proposti dalla Riforma dello Ius Scholae, il 62% non sa in cosa consiste la legge sulla cittadinanza che andrà in esame alla Camera. C’è una forte ignoranza sul tema che rivela come il fenomeno e il dibattito nell’opinione pubblica e nella politica sia condizionato da scarsa consapevolezza e posizioni ideologiche. Infatti, una volta conosciuti i dettagli della riforma, circa 6 italiani su 10 sono a favore dell’attuale proposta Ius Scholae. Un fronte ampio di consensi che travalica le appartenenze partitiche e attraversa anche il centro destra: il 48% degli elettori della Lega è d’accordo con lo Ius Scholae, il 35% tra chi si dichiara elettore di Fratelli d’Italia e il 58% degli intervistati di Forza Italia. Oltre a un amplissimo fronte favorevole tra tutti gli altri elettori, c’è una forte apertura alla riforma proprio negli schieramenti che in Parlamento invece sono estremamente negativi e si oppongono al testo di legge».

Il testo proposto e la discussione in aula lasciano però trasparire un approccio vagamente meritocratico verso l’acquisizione della cittadinanza. Se la frequenza di un ciclo scolastico può essere un criterio sensato per concedere la cittadinanza, è meno chiaro perché «se il ciclo scolastico di cinque anni è quello delle elementari non si richiede solo la frequenza ma anche il superamento con esito positivo, quindi la promozione». Negli oltre 700 emendamenti presentati dai partiti emerge ancora meglio l’approccio meritocratico, in particolare nei tentativi di allungare il periodo di frequenza minimo e nell’introduzione di prove o altri criteri di valutazione dello studente: «La Lega – spiega Valigia Blu – ha puntato a inserire dei test di “italianità”, esami sugli usi e costumi del paese attraverso la conoscenza delle sagre e feste popolari. Diversi emendamenti si concentravano poi sulla condotta dei ragazzi a scuola, come non aver commesso atti di bullismo o atti violenti durante l’orario scolastico, e sul rendimento: una valutazione media non inferiore all’8 o per le qualifiche professionali a 90/100. Gli emendamenti del gruppo di Fratelli d’Italia, invece, vertevano principalmente sulla durata del percorso scolastico per la richiesta di cittadinanza: per FdI il periodo minimo dovrebbe essere almeno di otto anni. Nell’unico emendamento a firma della leader, Giorgia Meloni, si chiede che i bambini arrivati entro i 12 anni di età frequentino almeno due cicli scolastici (elementari/medie e superiori) presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione e che al compimento del diciottesimo anno di età possano” acquistare” la cittadinanza italiana».

Benissimo discutere e confrontarsi, soprattutto se l’intento è quello di migliorare una proposta di legge che poi avrà effetti reali sulla vita delle persone. Ma in tutto questo aggiungere ostacoli e paletti viene da chiedersi cosa abbiamo fatto di eccezionale noi che, semplicemente, abbiamo la cittadinanza italiana in quanto nati da genitori italiani. Molti di noi non sanno nulla di sagre e feste popolari, hanno avuto un percorso scolastico negativo e magari hanno anche abbandonato gli studi prima del tempo, eppure continuiamo a essere italiani. Ed è giusto così, ci mancherebbe. Ma perché per alcuni la cittadinanza è un diritto mentre per altri dev’essere un merito?

(Foto di CDC su Unsplash)

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