Razzismo e antisemitismo non furono una tardiva concessione dell’Italia fascista all’alleato nazista, ma il frutto di una convinta ideologia sorretta dal delirante Manifesto degli scienziati razzisti, che sfociò nelle leggi razziali. Ne scrive Scienza in Rete.

Nessuna storia saprà raccontare ciò che uomini e donne hanno vissuto quotidianamente con il conseguente peso d’angoscia, di umiliazione e di miseria. Certamente è questo il debito che si deve pagare, che è stato pagato, in tutte le guerre e di cui molti hanno sofferto. Ma nel nostro caso, ciò è avvenuto in attuazione di leggi e regolamenti discriminatori che hanno violentemente isolato una parte della nostra popolazione per il solo fatto della loro nascita. È questa una vicenda senza precedenti, che non deve mai più accadere; che non accadrà se ciascuno di noi, da oggi, non legittimerà in nessun modo la violazione dei diritti umani che devono essere a fondamento della società e delle leggi del nostro paese.

Con queste parole, nel 2001, Tina Anselmi introdusse il Rapporto generale della commissione da lei presieduta e insediata tre anni prima dal governo italiano, in conformità ad analoghe iniziative internazionali, “per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati” prima e dopo l’8 settembre 1943, durante il ventennio del regime fascista e durante la Repubblica di Salò, dalle autorità italiane e da quelle tedesche.

La Commissione Anselmi è stata l’ultimo l’atto istituzionale riguardante le leggi razziali, che hanno inferto un insulto alla civiltà non emendabile con prese di distanza soltanto formali quando non prendono le mosse dall’ammissione che il sacrificio della vita di un numero intollerabile di innocenti fu il prodotto dell’ideologia razzista di un governo totalitario e non di un lapsus del legislatore o dell’ingrata necessità di compiacere gli alleati tedeschi.

Gli ebrei in Italia prima del fascismo

La vulgata delle leggi razziali come imposizione dell’alleato nazionalsocialista e di un antisemitismo fascista come dovuto solo alla ragion politica è stata in parte alimentata dal particolare contesto storico italiano. Infatti, diversamente che nella Francia della Restaurazione e in Germania, dove esse andavano peggiorando (vedi il caso Dreyfus), nel territorio italiano del XIX secolo le sorti dei cittadini di religione ebraica erano migliorate, sull’onda dell’occupazione napoleonica e del pensiero di Carlo Cattaneo, Vincenzo Gioberti, Niccolò Tommaseo e Roberto Taparelli D’Azeglio. Lo Statuto albertino del 29 marzo 1848 aveva proclamato l’uguaglianza di tutti i cittadini “… gli israeliti regnicoli godranno, dalla data del presente, di tutti i diritti civili e delle facoltà di conseguire i gradi accademici” e, in seguito, la legge sull’Emancipazione fu estesa a tutto il Regno d’Italia.

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