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«Con la cultura non si mangia», dichiarò Giulio Tremonti, allora ministro dell’Economia, il 14 ottobre 2010. Non contento, aveva rincarato la dose di umorismo aggiungendo che: «Di cultura non si vive, vado alla buvette a farmi un panino alla cultura, e comincio dalla Divina Commedia». Poche parole per condensare e istituzionalizzare uno dei più deleteri luoghi comuni che affliggono il nostro Paese (e quindi, in un certo senso, la sua cultura). Per fortuna, a ribattere le avventate parole del “commercialista di Sondrio” arrivano ogni anno, puntualmente, i numeri delle ricerche di mercato (quelle con cui invece si mangia).

Qualche mese fa è stato infatti pubblicato il rapporto “Io sono cultura. L’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi”, redatto dalla fondazione Symbola. Il quadro che emerge dalle quasi 300 pagine del documento è molto diverso da quello dipinto da Tremonti (in uno degli slogan a suo modo più efficaci nella storia della politica italiana, se non altro per la facilità con cui dal giorno dopo è stato smentito a più riprese). I dati, riferiti al 2013, parlano di un settore trainante per l’economia italiana, che negli anni della crisi non ha conosciuto contrazioni, ma al contrario una crescita. La cultura continua a richiamare milioni di turisti ogni anno, disposti a spendere per visitare l’Italia e il suo patrimonio artistico e paesaggistico.

Le imprese del sistema produttivo culturale industrie culturali propriamente dette, si spiega nella premessa allo studio, «sono 443.458, il 7,3 per cento del totale. A loro si deve il 5,4 per cento della ricchezza prodotta in Italia: 74,9 miliardi di euro. Che arrivano a 80 circa (il 5,7 per cento dell’economia nazionale) se includiamo istituzioni pubbliche e non profit. Ma non finisce qui: perché la cultura ha sul resto dell’economia un effetto moltiplicatore pari a 1,67: in altri termini, per ogni euro prodotto dalla cultura, se ne attivano 1,67 in altri settori. Gli 80 miliardi, quindi, ne “stimolano” altri 134, per arrivare a quei 214 miliardi prodotti dall’intera filiera culturale, col turismo come principale beneficiario di questo effetto volano». In termini occupazionali, nonostante tutti i problemi comunque non estranei al settore, il comparto culturale ha un posto importante: «Le imprese del sistema produttivo culturale (da sole, senza considerare i posti di lavoro attivati negli altri segmenti della nostra economia) danno lavoro a 1,4 milioni di persone, il 5,8 per cento del totale degli occupati in Italia (1,5 milioni, il 6,2 per cento, se includiamo pubblico e non profit)».

La cultura, oltre a essere consumata in Italia, viene anche esportata: «Nonostante il clima recessivo – dovuto principalmente al crollo della domanda interna, che ha pesato, ovviamente, anche su questo settore – l’export legato alla cultura continua ad andare molto forte. Durante la crisi è cresciuto del 35 per cento: era di 30,7 miliardi nel 2009, è arrivato a 41,6 nel 2013, pari al 10,7 per cento di tutte le vendite oltre confine delle nostre imprese. Il settore può vantare una bilancia commerciale sempre in attivo negli ultimi 22 anni, periodo durante il quale il valore dei beni esportati è più che triplicato. Il surplus commerciale con l’estero nel 2013 è di 25,7 miliardi di euro: secondo solo, nell’economia nazionale, alla filiera meccanica, e ben superiore, ad esempio, a quella metallurgica (10,3 miliardi)».

Non ce ne voglia Tremonti, le cui parole sono servite solo da pretesto per presentare il rapporto. Anzi, ci impegniamo da qui in poi a non usare più la sua infelice uscita per sottolinearne “l’inesattezza sempre più d’attualità”. Concediamo allo slogan e a chi l’ha partorito il diritto all’oblio, nella speranza che faccia la stessa fine anche il pregiudizio da cui prende ispirazione. Detto questo, non ci illudiamo che la cultura in Italia abbia risolto i propri problemi. Il rapporto restituisce il quadro di un settore ancora forte e con grandi potenzialità. Ma, citando ancora le considerazioni contenute nel rapporto: «La cultura è un incubatore: non si può pensarla esclusivamente come un oggetto da difendere, come il destinatario di fondi pubblici (importantissimi, sia chiaro) senza i quali non c’è scampo dall’oblio». Il patrimonio e l’industria culturali vanno ripensati senza timore di cambiare. Ultimamente l’ingresso delle sponsorizzazioni private sta dando nuova vita a monumenti e opere che non trovavano i fondi necessari alla propria manutenzione. Non è forse la strada ideale per molti che continuano a vivere il patrimonio come “bene pubblico”. Ma finché non ci sono strategie migliori, ben vengano anche queste soluzioni.