La foresta amazzonica brasiliana ha subito un grave processo di deforestazione negli ultimi anni, con un dato che può sembrare apparentemente contraddittorio: le aree protette fanno rilevare tassi di deforestazione più elevati e rapidi rispetto a quelle non protette. È quanto emerge da un nuovo studio pubblicato su Nature e di cui si è occupata la testata ambientalista Grist.
Secondo lo studio, nonostante l’espansione delle aree protette e l’aumento del riconoscimento dei territori indigeni nel 52 per cento dell’Amazzonia brasiliana dal 2000 al 2021, la perdita di foresta è aumentata in queste aree a un ritmo allarmante.
«Il Brasile ha fatto buoni progressi in termini di crescita delle aree protette, ma i territori indigeni e le aree protette hanno bisogno di maggiori risorse se vogliamo che mantengano la loro capacità di rafforzare le foreste», ha dichiarato a Grist Xiangming Xiao, professore di biologia dell’Università dell’Oklahoma e autore principale dello studio.
Tra il 2000 e il 2021, circa 27 milioni di ettari di foresta in aree non protette dell’Amazzonia brasiliana sono andati persi. Tuttavia, tra il 2018 e il 2021, il tasso relativo di perdita lorda di foresta è stato più alto nelle aree protette e nei territori indigeni, quasi il doppio rispetto alle aree non protette. Questo aumento, secondo la ricerca, è probabilmente legato allo sviluppo economico e all’allentamento delle politiche di conservazione ambientale sostenute dall’amministrazione dell’ex presidente Jair Bolsonaro a partire dal 2019.
«Le terre indigene e le aree protette sono vulnerabili in modo diverso dalle aree non protette», ha detto ancora Xiao. «Hanno più biomassa, più biodiversità e la loro perdita avrà un impatto enorme in termini di biodiversità, conservazione e stoccaggio del carbonio».
Solo tra marzo e settembre 2020, spiega Grist, i legislatori brasiliani hanno approvato 27 leggi che hanno indebolito le normative ambientali e le multe per la violazione delle norme sulla conservazione sono diminuite del 72 per cento. Sotto la presidenza di Bolsonaro, la prospezione e l’estrazione mineraria sono aumentate, con richieste attualmente in sospeso per circa 100 milioni di ettari, di cui quasi il 20 per cento in aree protette, territori indigeni o regioni con norme di conservazione stringenti. Alcune proposte di legge, se approvate, ridurrebbero l’autorità federale sulle aree protette e allenterebbero i vincoli sulle attività economiche nelle terre indigene.
Ma il problema non sono solo le attività legali: nel 2020, si legge nell’articolo, i dati satellitari hanno rivelato picchi record nell’estrazione mineraria illegale e nella perdita di foreste primarie. Lo studio afferma che anche il COVID-19 ha avuto un impatto, colpendo duramente le comunità indigene e facilitando l’invasione delle loro terre da parte di taglialegna e minatori irregolari.
Bisogna osservare che non tutte le aree protette sono create allo stesso modo. Le aree protette strettamente monitorate hanno perso più foreste rispetto a quelle progettate per un uso sostenibile, dove l’uomo può vivere e lavorare. L’ipotesi è che le aree in cui ci si limita alla sorveglianza abbiano avuto una minore capacità di affrontare le pressioni dello sviluppo industriale ed economico degli ultimi anni e della pandemia. Secondo Xiao è quindi importante puntare sull’uso sostenibile, che crea aree dove l’uomo può vivere, salvaguardando al contempo la salute dell’ambiente in cui è inserito. Come sempre quando si parla di ambiente, bisogna bilanciare le esigenze della conservazione con quelle delle persone.
L’elezione a presidente di Luiz Inácio Lula da Silva fa ben sperare, visto che il periodo di minore deforestazione, all’incirca dal 2004 al 2010, coincide proprio con la sua prima amministrazione. Con il suo ritorno in carica e le recenti iniziative ambientali, tra cui la scelta della leader indigena Sônia Guajajara come ministra delle Popolazioni indigene, potremmo assistere a una riduzione della deforestazione.
(Foto di Rodrigo Kugnharski su Unsplash)
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