Il successo in politica, negli ultimi decenni, non sembra più determinato dal fatto di saper proporre una visione dei problemi, e di come risolverli, che incontri l’opinione degli elettori. Il fattore determinante sembra essere la sicurezza con cui si sostengono le menzogne che fanno più comodo, e che facciano leva sulla “pancia” dei cittadini. Il concetto di postverità, emerso nel 2004, diventa attuale oggi. Lo spiega Pierre Haski, in un articolo per L’Obs tradotto da Internazionale.

L’espressione è apparsa nel 2004 in un libro pubblicato negli Stati Uniti, ma è nel 2016 che ha acquisito un senso più compiuto: post-truth, postverità. La formula descrive la pericolosa tendenza delle democrazie occidentali a non credere più ai fatti nel dibattito politico, bensì alle menzogne pronunciate in tono sicuro.

Nel suo libro The post-truth era (L’era della postverità), Ralph Keyes definisce la menzogna “un’affermazione falsa, fatta in piena cognizione di causa con l’obiettivo d’ingannare”. Un esempio? La campagna referendaria per l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea sosteneva che Londra versava all’Ue 350 milioni di sterline alla settimana e che tale denaro sarebbe potuto essere investito nel servizio sanitario nazionale in caso d’uscita dall’Unione europea. L’affermazione era chiaramente falsa: non erano vere né la cifra né la promessa. Ma una volta scritta sugli autobus britannici a due piani è diventata credibile.

Ora il testimone della post-truth è passato a Donald Trump, e questa tendenza si intravede già nei primi dibattiti per le elezioni presidenziali francesi.

Dire quel che fa comodo

Nel caso di Trump la cosa più stupefacente è che un paese moralista come gli Stati Uniti ha spesso considerato la menzogna una cosa più grave dei fatti che si volevano nascondere. Sono stati la bugia e lo spergiuro, più che il furto con scasso, a portare all’impeachment di Richard Nixon dopo lo scandalo Watergate.

Gli esperti di fact-checking (verifica dei fatti) hanno dimostrato che più di due terzi delle affermazioni di Trump nell’ultimo anno sono false, ma la sua credibilità non ne risente. Al contrario, all’indomani del suo viaggio in Messico in cui non ha osato dire al presidente messicano che gli avrebbe inviato la fattura del famoso muro che intende costruire lungo la frontiera – per poi ripetere ai suoi elettori che “saranno i messicani a pagare” – ha superato Hillary Clinton in alcuni sondaggi (anche se la sua vittoria appare ancora improbabile).

L’ultima menzogna di Trump è stata smascherata da Politifact, la rubrica di fact-checking del Washington Post, che ha dimostrato che il candidato repubblicano non si è affatto opposto all’invasione dell’Iraq come ha sostenuto più volte. Tre mesi prima della guerra si era detto favorevole all’idea, per poi prenderne le distanze nel 2004 quando sono cominciati i problemi. Ma poco importa. Trump continua a dire quel che gli fa comodo, o che piace al suo elettorato, senza preoccuparsi della verità e neppure dei fatti.

«La verità ha ancora qualche importanza?», si chiedeva la direttrice del Guardian Katharine Viner a luglio commentando il risultato del referendum nel Regno Unito. In paesi dove i mezzi d’informazione sono molto sviluppati, come gli Stati Uniti e il Regno Unito, il diffondersi delle postverità dimostra soprattutto l’insofferenza dell’elettorato nei confronti delle élite.

Non si vota per la Brexit o per Trump perché dicono la verità, ma perché incarnano, a torto o a ragione, un rifiuto del “sistema”. E i social network, grazie all’ambivalenza della tecnologia che fa gli interessi di chi la sa usare meglio, sono il campo di battaglia preferito di chi si crede poco rappresentato dai mezzi d’informazione tradizionali.

La postverità è incompatibile con la democrazia. Se lasceremo che si radichi e si diffonda in maniera duratura, ne pagheremo tutti il prezzo.

Foto: Gage Skidmore