Accettare il fatto che la verità è un’approssimazione è il punto di partenza per approcciarsi in modo sano a capire il mondo. Una riflessione della semiologa Anna Maria Lorusso, comparsa ieri sulle pagine della Domenica del Sole 24 Ore.
Spesso, oggi, ci addentriamo in territori che non conosciamo: parliamo di vaccini come fossimo medici, parliamo di riscaldamento del pianeta come fossimo fisici… Io voglio invece richiamare un’esperienza che per una volta davvero abbiamo fatto tutti: immaginiamo di pesarci. Lo facciamo una volta su una bilancia in palestra, una volta su una bilancia in casa, una volta su una bilancia in albergo. I tre strumenti ci daranno tre pesi diversi, con uno scarto che ci irriterà: un chilo, un chilo e mezzo in più o in meno, conta.
Le bilance ci dicono il falso? Ci ingannano? Certo, è sempre facile e istintivo attribuire una intenzionalità alle cose del mondo (e tutte le ossessioni complottiste si basano su questo: attribuire intenzioni ed eliminare la casualità). Ma dobbiamo farcene una ragione: le bilance non ci vogliono mentire; le bilance hanno semplicemente gradi diversi di accuratezza. L’accuratezza è una misura, il margine di errore possibile, il grado di concordanza tra il valore medio delle misurazioni e il valore assunto come valore di riferimento può variare. È così. Fa parte della logica delle misurazioni. Il dato è questione di confronto.
Soluzione: buttiamo alle ortiche le bilance? Ce la prendiamo con la lobby che certamente c’è dietro le bilance per alimentare il business delle diete? È evidente a tutti che il meglio in realtà è continuare a pesarsi proprio in bilance diverse: solo così riusciremo ad accostarci al valore più realistico, moltiplicando le diverse versioni del nostro peso.
L’informazione non funziona in modo molto diverso. Le notizie che leggiamo pesano la realtà, quel mondo dei fatti che certamente da qualche parte si è dato (come ogni realista – debole o forte che sia – rivendicherebbe giustamente) ma che i nostri strumenti non restituiscono tale e quale è, ma devono in qualche modo tradurre.
L’informazione è traduzione: organizzazione, racconto, definizione, delimitazione del reale. Si tratta di dare peso alle cose. E a volte si inganna intenzionalmente, e per qualche ragione e interesse si danno pesi sbagliati, altre volte si danno pesi diversi alle cose semplicemente perché si hanno valori, parametri, riferimenti diversi. Chi legge dovrebbe saper valutare l’accuratezza delle sue bilance.
Per queste ragioni, una prudente ecologia della conoscenza e della responsabilità dovrebbe spingerci ai confronti, alle tare, alle ponderazioni, e non certo per accettare tutto come equivalente, ma per capire qual è il valore più affidabile.
Un atteggiamento di questo tipo è però molto lontano dal fast-food della dieta cognitivo-informativa di oggi: è lontano da chi vuole continuamente verità – le rivendica, le afferma, le rilancia, senza incertezze, senza tare, nel pieno della propria arroganza discorsiva – ma è lontano anche da chi vuole rapidamente smascherare le falsità – con operazioni di fact-checking che debbono avere la stessa fulmineità delle pretese verità, e così verificare numeri, nomi, etichette, nel pieno di una hybris correttiva. Entrambi gli atteggiamenti obbediscono a una furia comune: quella della fabbrica delle verità.
Chi pensa che l’epoca della postverità sia un’epoca in cui il vero non conta si sbaglia; il vero non è mai stato così richiesto e affermato. Umberto Eco, che a lungo si è occupato di procedure di falsificazione (che è sempre un modo di guardare al problema del vero), ha riflettuto molto su alcuni casi celebri di falso: la Donazione di Costantino, i Protocolli dei Savi anziani di Sion. In casi come questi il giudizio vero/falso è chiaramente quanto meno riduttivo, e se non c’è dubbio oggi che siano testi apocrifi, non possiamo però dimenticare che sono stati presi per veri per secoli, e tuttora ci sono siti che parlano dei Protocolli come testo di riferimento.
Nessuna disamina critica di questi testi sarebbe utile se non prendesse in conto la quota di credibilità che questi testi presentavano: costruivano il falso, ma in modo credibile. È proprio la dimensione di credibilità (non l’errore che il fact-checking scoverebbe) quella che deve preoccupare, il fatto cioè che, in qualche modo, in una certa misura, in quei testi c’era qualcosa che corrispondeva ai valori, alle aspettative, ai paradigmi, delle persone che li recepivano. E proprio per questo hanno richiesto secoli di lavoro di confronto.
Se pensiamo che oggi non ci siano più casi tanto complessi, riflettiamo sulle costruzioni di false prove documentali (virgolettati, fermo-immagine, intercettazioni) che continuamente ci circondano. Abbiamo continua sete di evidenze, come se le evidenze fossero un dato e non un risultato: il risultato di procedure di costruzione ad hoc (nel peggiore dei casi) o disamina (nel migliore dei casi).
Nella grande, attivissima fabbrica di verità che oggi è al lavoro, pensare che siano i rapidi riscontri del fact-checking quel che ci metterà al riparo dalle falsificazioni è una finzione. Soppesare, valutare, confrontare, sono operazioni che richiedono tempo, competenza, esperienza, esercizio… Cura e accuratezza sono le due facce di una stessa consapevolezza: quella basata sulla valutazione attenta di un margine d’errore, sull’assiduità di una preoccupazione, su una logica di attenzione e discrimine, non di arroganza e condanna. Senza certezze, e sempre con molti dubbi.
(Foto di Elijah O’Donell su Unsplash)