Oggi è l’8 marzo e noi parliamo di lavoro. Di quello che non c’è, per le donne, e che quando c’è rende meno che agli uomini, oppure si accompagna a condizioni di sicurezza più difficili. Parliamo dell’Italia, dove il lavoro part-time, lungi dall’essere uno strumento da mettere in mano alle giovani coppie per la gestione della prole, è invece utilizzato in maniera distorta (e imposto dalle aziende) come strumento di flessibilità, per gestire i turni dei dipendenti con più libertà. L’Italia, che ignora quanto dice il rapporto 2011 della Banca d’Italia, quando afferma che «È una costante appurata che, in Occidente, più natalità equivalga a più partecipazione delle donne nel mondo del lavoro. Con più occupate aumenta il prodotto interno lordo e diminuisce la povertà di un Paese. Eppure in Italia, come ha scritto Del Boca, “le famiglie sono sole”. I tagli al pubblico non fanno altro che “togliere ossigeno a un settore chiave, insieme con quello dei contratti part-time, per favorire l’impiego femminile e l’istruzione di giovani e donne”. Mentre “più precariato significa meno produttività e stallo”».

L’Italia dipinta dall’Istat come un Paese diviso a metà, in cui «Se al nord le lavoratrici raggiungono una percentuale del 70 per cento come nel nord Europa, al sud c’è un vero e proprio baratro, con una percentuale che arriva appena al 35 per cento: la più bassa dell’Unione europea. La media nazionale ci porta invece quasi al 50 per cento, ma le cose non cambiano di molto, dato che davanti a noi ci sono solamente Malta e la Grecia post-crisi. I dati Istat affermano, infatti, che solo 47 donne italiane su 100 nel 2012 lavoravano o cercavano attivamente lavoro, contro le 69 spagnole, le 66 francesi, le 72 tedesche e le 77 svedesi». E al lavoro, quando c’è, non si associano adeguati standard di sicurezza. Secondo i dati Inail (aggiornati al 2011), ogni anno 232mila donne subiscono un infortunio sul lavoro, di cui 90 con esito mortale, su circa 9 milioni 350mila occupate. I settori più rischiosi risultano essere quelli della sanità, delle amministrazioni statali, del commercio, dei servizi alle imprese (pulizie), del settore alberghiero e della ristorazione e dell’agricoltura. Inoltre le minacce si nascondono anche fuori dalla sede di lavoro, dato che per la donna lavoratrice risulta particolarmente rischioso il percorso casa-lavoro e viceversa.

Rossella Palombo, statistica, ha pubblicato un libro “Sognando parità”, in cui ricostruisce le tappe delle conquiste di genere ottenute dalle donne in Italia. Ecco le principali (e state pronti a sorprendervi, perché sono più recenti di quanto pensiate): «1950 la legge per congedo maternità, 1962 l’abolizione del licenziamento per matrimonio, 1963 la possibilità per le donne di accedere alla carriera come magistrato, 1975 il nuovo diritto di famiglia e abolizione del capofamiglia (e con esso lo ius corrigendi, ovvero il diritto del marito di picchiare la moglie laddove, a sua discrezione, questa aveva sbagliato), 1977 la parità di trattamento sul lavoro, 1981 l’abolizione delitto d’onore, 1996 l’inclusione della violenza sessuale tra i reati contro la persona e non più contro la morale». Diritti che oggi diamo per scontati, ma che sono stati conquistati solo qualche decina d’anni fa, e che ogni giorno vanno confrontati con la realtà, difesi e promossi.

L’autrice del libro si spinge poi a ipotizzare quando si compieranno altri fondamentali passi per poter parlare di effettiva parità: «Si otterrà nel 2037 la parità di presenze dirigenti nei ministeri, nel 2052 nelle università, nel 2087 nella sanità. Mentre la parità fra professori ordinari uomini e donne si avrà nel 2138, quella nei consigli di amministrazione nel 2143, quella ai vertici della magistratura nel 2425 e la parità ai vertici della diplomazia nel 2660». Meglio tardi che mai, si potrebbe commentare. Ma non bisogna dimenticare che la spinta a lottare per ottenere un diritto è mossa anche dalla speranza di poter vedere la fine di quella battaglia. E se queste previsioni fossero confermate, dovremmo rassegnarci alla triste prospettiva di non esserci. Ma la statistica non sempre indovina, per fortuna.