Il problema dell’eccesso di dirigenti pubblici in Italia è uno dei temi attorno a cui ruota l’obiettivo della riduzione della spesa da parte dello Stato. Spesso ce ne sono così tanti che non si sa cosa fargli fare, e così questi si adeguano, non facendo nulla. Come nel caso di Leandro Vittorio Savio, dirigente dell’Afor, l’Agenzia della forestazione della Regione Calabria (ora Calabria Verde), il cui nome è finito per caso nelle indagini condotte dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. Obiettivo dell’indagine era in realtà il senatore Antonio Stefano Caridi, per il quale è poi stato chiesto l’arresto per associazione mafiosa alla Giunta autorizzazioni del Senato. Dall’altra parte del telefono il “malcapitato” Savio che, ricevuto l’incarico dirigenziale, si è trovato poi in una situazione di estremo stress causata dal non avere alcuna reale mansione, e dall’essere circondato da centinaia di dipendenti nelle sue stesse condizioni (ma psicologicamente molto più distesi, sembrerebbe).
Savio aveva ottenuto l’incarico dopo varie telefonate e minacce di denunce, dato che il posto che gli spettava in quanto vincitore di un concorso sembrava dovesse finire invece a qualcun altro. Gli viene assegnato, come racconta il Sole 24 Ore, un «posto di dirigente “senza settore”, per tre anni, a partire dal 1° novembre 2011». Sembra l’epilogo della storia, e invece la frustrazione di Savio è solo all’inizio in quanto il 22 febbraio 2012, dalle intercettazioni telefoniche a lui attribuite, emerge tutto il suo sgomento: «Poi qua, guarda, all’Afor ci sono queste persone… cioè queste persone non lavorano, sono tutti nella mia stanza che si lamentano Totò. Cioè duemila e cinquecento persone che non fanno niente. Poi vedi, li vedi girare qua dentro. Non stanno mai nell’ufficio giustamente perché… Vanno “pedi pedi”. Totò, non fanno niente! Cioè, credimi, non fanno niente. Abbiamo centottanta dipendenti che dovrebbero curare il verde a Reggio, tu li hai visti mai? Sono qua, che vengono la mattina, stanno tre minuti e se ne vanno. Ma ti dico una cosa diciamo veramente allucinante, allucinante. Io qua vedo un passaggio di almeno quattrocento, cinquecento persone al giorno che non toccano nulla. Non fanno nulla! Sicuramente il 70 per cento è lavativo ma il 30 per cento è distrutto, ma distrutto… Ti dico, su Reggio una situazione affossata»
In altre conversazioni intercettate si intuisce lo sconforto crescente nel dirigente, che si trova a incassare uno stipendio di entità più che discreta, senza però la possibilità di fare qualcosa per dare in cambio un servizio a chi lo sta pagando, cioè, semplificando, i cittadini: «Eh, io prendo qua, quattromila euro al mese Totò, e non faccio niente. Cioè io mi sto… ammorbando. Ma alla fine, cioè capisci che ti voglio dire? Uno vuole solo lavorare… Cioè, mi paghi, fammi lavorare». Alla fine la decisione di mollare tutto, anticipando la decisione a Caridi (il Totò delle conversazioni) via sms l’11 aprile 2012: «Ti volevo solo comunicare che mi dimetto a fine mese. La dignità non deve essere mai calpestata scusa se ti ho così disturbato». Alla fine Savio tornerà sulla sua decisione, e pare che abbia finalmente ottenuto la possibilità di rendersi utile al territorio della sua Regione per giustificare il pagamento dello stipendio. Temiamo però che per gli altri 2.500 dipendenti le cose non siano andate allo stesso modo, e che se ne stiano tuttora “pedi pedi” tutto il giorno, in attesa di timbrare il cartellino a fine giornata.
Quella di Savio sembra la storia, all’inverso, raccontata dall’ultimo film di Checco Zalone (i cui film sono meno superficiali, nel descrivere la società italiana, di quanto si possa pensare). In Quo Vado?, il protagonista è felicemente attaccato al posto fisso nell’ufficio provinciale Caccia e pesca del suo paesino, dove non fa altro che timbrare licenze e ricevere regali. Un cambio di indirizzo al governo del Paese lo costringe a continui trasferimenti di sede e di mansione, nella speranza (vana) del nuovo ministro che egli rinunci al posto e si rassegni a cercare un lavoro “vero”. L’evoluzione della vicenda è ovviamente surreale ed esagerata, ma di sicuro lo spirito del personaggio di Checco Zalone (che è più o meno lo stesso in tutti i suoi film) alberga nell’animo di molti di quei dipendenti pubblici che, oltre a timbrare il cartellino, non fanno molto altro. Perché se è vera la stima di Savio (nomen omen), di quei 2.500 fannulloni solo 750 sarebbero in difficoltà per il loro dolce far niente, mentre i restanti 1.750 sarebbero ben contenti di continuare così. Forse la stima è anche troppo ottimista. Chissà qual è il rapporto vero, tra i dipendenti come tra i dirigenti che, se anche sono meno, guadagnano però molto di più. E ricordiamo che, mentre si fa tanto parlare di meritocrazia, in Italia è ancora molto più premiata l’anzianità, come fa notare Rossana Prezioso su Trend Online: «In Italia il retaggio della “fedeltà”, così come l’omaggio al tempo trascorso all’interno dell’organizzazione, sono molto più premiati rispetto al valore effettivo della risorsa. Ecco allora che un lavoratore (pardon, dirigente) di lungo corso ma di scarso Curriculum, non sfrutterà la sua (in)capacità di raggiungere risultati ma la la permanenza in carica come asso nella manica per il bonus. Molto più comodo e senza dubbio sicuro visto che di fronte alla carta d’identità e all’anzianità di servizio in pochi possono opporre una resistenza credibile».
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