La vita reale fa irruzione sul palco degli Oscar, durante il breve intervento di ringraziamento di Patricia Arquette, vincitrice del premio come miglior attrice non protagonista nel film Boyhood, di Richard Linklater. L’attrice ha ringraziato «tutte le donne che hanno partorito, tutte le cittadine e le contribuenti di questa nazione: abbiamo combattuto per i diritti di tutti gli altri, adesso è ora di ottenere la parità di retribuzione una volta per tutte, e la parità di diritti per tutte le donne negli Stati Uniti». Il richiamo è importante perché il fenomeno non riguarda solo le attrici di Hollywood o in generale le lavoratrici statunitensi. Si tratta di una tendenza diffusa in tutto il mondo, anche quello Vecchio, Italia compresa. Secondo l’Ocse, una donna guadagna in media il 30 per cento in meno di un uomo. Per quanto riguarda l’Italia, Monica D’Ascenzo fa ironicamente notare sul suo blog per il Sole 24 Ore che al momento questo gap è proprio il migliore incentivo per un imprenditore ad assumere una donna.
Non c’è bisogno di nessuna nuova legge per favorire il lavoro femminile: dovrebbe bastare il risparmio garantito dal genere femminile in quanto tale a convincere il datore di lavoro. Constatazione sarcastica, ma alquanto lucida. Secondo D’Ascenzo, che cita come fonte uno studio Istat, la differenza del costo del lavoro per un’impresa tra uomini e donne in Italia è del 32 per cento: «Il costo del lavoro di un lavoratore è in media di 34.752 euro, mentre un’azienda spende “solo” 26.281 euro per una lavoratrice dipendente». Questo fatto non basta però a incentivare l’occupazione femminile, visto che «l’occupazione maschile in Italia è quasi 20 punti percentuali in più di quella femminile. Ha ancora senso fare proposte di legge per incentivi fiscali a favore delle assunzioni di donne?». Per quanto riguarda il guadagno, il dato italiano non è molto lontano da quello Ocse citato da Vita: «Le donne guadagnano in media il 26,5 per cento in meno degli uomini. Le prime, infatti, si trovano a percepire 14.391 euro l’anno contro i 18.211 euro degli uomini. Il divario è ancora maggiore se si parla di lavoro autonomo, dove le donne in media hanno una retribuzione annua di 12.323 euro contro i 18.398 euro dei colleghi». D’Avanzo propone una tipo diverso di incentivo per invertire la tendenza: la pubblicità delle retribuzioni. «Forse – scrive – già dover rendere pubblici i dati sulle retribuzioni divisi per genere aiuterebbe e avviene già in altri Paesi, ad esempio per le società quotate. Magari in questo modo già il pudore può fare la sua parte!». Perché no? L’idea non è per niente malvagia e costringerebbe molte aziende, se non altro, a motivare con molta precisione le differenze di trattamento.
A questi problemi dovrebbe rispondere la politica, che proprio in questi giorni si sta occupando di ridefinire la normativa che si occupa dei contratti di lavoro. Secondo il sito ingenere.it, non arrivano buone notizie per le donne dalla riforma in atto: «La possibilità di fare contratti brevi, rinnovabili più volte, consentirà ai datori di lavoro di ignorare del tutto legalmente la norma sul divieto di licenziamento durante il cosiddetto periodo protetto. Non occorrerà neppure più far firmare, illegalmente, dimissioni in bianco, o indagare, sempre illegalmente, sulle intenzioni procreative al momento dell’assunzione. Basterà fare loro sistematicamente contratti brevi, non rinnovandoli alla scadenza in caso di gravidanza. Con l’ulteriore conseguenza negativa che molte donne non riusciranno a maturare il diritto alla indennità di maternità piena. E faranno fatica ad iscrivere il bambino all’asilo nido, dato che non potranno dimostrare di avere un contratto di lavoro almeno annuale».
Qualche settore in controtendenza c’è, come fa notare Repubblica. A quanto pare, nei ruoli dirigenziali il divario tra manager donne e uomini si sta assottigliando, sia in termini di presenza sia di livelli salariali. «Il divario negli stipendi fra uomo e donna a parità di mansioni, si è ridotto al 6 per cento, posizionando l’Italia tra i Paesi più virtuosi dell’Unione Europea, dove la differenza è in media del 16,4 per cento». La ricerca di Aldai (Associazione Lombarda Dirigenti Aziende Industriali) che ha rilevato questi dati, sottolinea però che «la presenza di manager rosa nel Belpaese (29,8 per cento) nel 2014 resta inferiore alla media europea (33,1 per cento), ma che il divario si è dimezzato rispetto a 3 anni fa». Se così stanno le cose, è forse arrivato il momento, giusto per variare l’inflazionato slogan, di una “rivoluzione dall’alto”?