E quindi dicevamo che ricoprire ruoli di rappresentanza è affare delicato. C’è sempre il rischio di fare danni all’istituzione che si rappresenta soprattutto quando capita che, magari dopo un periodo di reggenza che si protrae per una durata consistente, si confonde il proprio cammino personale con quello collettivo.
Nel post di ieri riportavamo varie frasi, citazioni e aforismi (alcuni sono solo attribuiti, abbiamo cercato di verificare per quanto possibile l’attendibilità delle fonti, ci scusiamo in caso di fake, ma capita a tutti) che in qualche modo gravitano attorno a questo tema. Tra queste una molto bella del pittore olandese Vincent Van Gogh: «Non vivo per me, ma per la generazione che verrà». Applicata al tema che stiamo esplorando, diventa una bellissima esortazione a qualsiasi leader, affinché non cada nell’errore di percepirsi come il fulcro attorno a cui deve ruotare la vita di un’istituzione. Volendo trovare un aforisma opposto, se ne potrebbe introdurre un altro (che non rientra nella lista stilata ieri), ossia «Dopo di me il diluvio», attribuita al re di Francia Luigi XV. In queste poche parole stanno due visioni opposte di qualsiasi organizzazione sociale. Da un lato il capo che interpreta il proprio ruolo come una parentesi, un passaggio, che per quanto importante e impegnativo ha un inizio e una fine. Dall’altro il re che si percepisce come l’inizio e la fine di ogni cosa.
Lavorare per le generazioni future significa mettere da parte la tentazione di vedere se stessi come gli unici in grado di far progredire la storia. Le cose stanno diversamente: la storia prosegue da sé, e ciò che si può (e si deve) fare è interpretare al meglio la fiducia che le persone che hanno espresso un certo leader hanno riposto in lui. Più che di una corsa con un inizio e una fine, la si può vedere come una staffetta, in cui ogni corridore è fondamentale, ma alla fine è la sommatoria delle prestazioni di tutti coloro che hanno corso a stabilire il vincitore. Anche la staffetta è basata su una relazione di fiducia tra chi viene prima e chi viene dopo. Pensate a cosa succederebbe se un corridore, una volta terminato il suo tratto di gara, si trovasse davanti un collega che non gli va a genio. Cosa può fare, negargli il testimone? Violare le regole e correre per un altro tratto di gara, rischiando di perdere tempo prezioso perché ormai la sua spinta propulsiva è esaurita?
La corsa a staffetta è una buona metafora che mette in scena la compresenza tra gioco di squadra e competizione individuale. I momenti più carichi di tensione in questo tipo di competizione sono proprio i passaggi di testimone. Il nuovo corridore guarda avanti, sta già correndo, protende la mano indietro in cerca di quella del suo compagno. È facile per quest’ultimo, in un momento così convulso, perdere la concentrazione, focalizzarsi troppo sulla propria prestazione individuale e credere di avere già assolto al proprio compito una volta terminato il tratto di corsa. Invece il passaggio di testimone può compromettere tutto quanto di buono c’è stato prima, e quanto si potrebbe fare dopo. Il testimone è la missione che ogni leader porta avanti, è l’elemento tangibile della fiducia che una collettività gli ha dato. Se il suo pensiero e il suo impegno sono davvero rivolti alla gara nel suo complesso, sarà un corridore che corre “per le generazioni future”, e quindi in nessun caso potrà cadergli di mano il testimone, né mai si troverà a temporeggiare, a non volerlo cedere, o a farlo controvoglia.
Chi corre, ma pensa “dopo di me il diluvio”, forse farebbe bene a partecipare ad altre corse, o magari a un altro sport. Tornando a questioni meno metaforiche e più pragmatiche, un buon leader si vede anche e soprattutto nelle fasi di passaggio, come le tornate elettorali. Ancor prima di arrivare a quel momento, la collettività che gli ha dato fiducia comincia a giudicarlo, a fare un consuntivo del suo operato. Proprio nella gestione della successione del potere si capisce se un rappresentante ha a cuore la continuità dell’istituzione che rappresenta, o invece quella della sua linea di pensiero. Se c’è un’interferenza di questo tipo, a perderci è soprattutto lui, il leader uscente, perché gli ultimi gesti sono quelli che si ricordano di più. E se non sono di chiarezza e trasparenza, rischiano di mettere in discussione tutto quanto di buono è stato fatto prima. La realtà è che la continuità non si costruisce artificialmente, muovendo le pedine in modo che al proprio posto subentri qualcuno di manovrabile. La libertà di scegliere il proprio successore si ottiene naturalmente, se si è stati capaci di costruire attorno a sé, durante la propria reggenza, una collettività che riconosce e dà valore a quanto è stato fatto. Se la semina è stata fatta con cura e senza interessi personali, il raccolto sarà ricco e di qualità, e nessuno avrà interesse a introdurre bruschi cambi di direzione.
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