Ogni anno, 750 mila persone in Italia si spostano per ricevere cure sanitarie. Come ha scritto Nicla Panciera su Vita, è «come se la città di Torino si spostasse per ragioni di salute una o due volte l’anno». Si tratta del fenomeno conosciuto come “migrazione sanitaria”, ed è bene tenerlo d’occhio anche alla luce dei tanti problemi della sanità pubblica italiana, che stiamo affrontando da un po’ di tempo in una serie di articoli.

Alla fine di ottobre è stata presentata un’importante ricerca, condotta da Doxa e commissionata dall’associazione A casa lontani da casa, che gestisce una rete di accoglienza per persone costrette a spostarsi per motivi di salute. Lo studio ha coinvolto un campione di 250 migranti sanitari (pazienti e accompagnatori) rappresentativo della popolazione italiana, e permette quindi di ricostruire il fenomeno a livello nazionale. Le persone selezionate si sono curate in un ospedale diverso da quello della città di residenza nei 12 mesi precedenti all’intervista e hanno ricevuto un trattamento medico o chirurgico, per cui hanno trascorso almeno una notte fuori casa.

Innanzitutto è utile comprendere chi siano i migranti sanitari: per la maggior parte (63%) si tratta di «donne di circa 45 anni, provenienti principalmente dal Sud e dalle Isole – si legge sulla pagina che ospita la ricerca –. Le patologie che maggiormente spingono a effettuare una trasferta sanitaria sono in particolare di problemi oncologici (14%) e cardiaci (13%)».

Quasi 8 migranti sanitari su 10 (il 78% del campione) hanno scelto di curarsi fuori dalla propria regione. Tra questi, 2 su 3 hanno percorso più di 200 chilometri per raggiungere il luogo di cura.

Rispetto alla motivazione dello spostamento, prevale la ricerca di eccellenza piuttosto che la carenza o assenza di cure. Il 72% dei rispondenti si è infatti spostato in cerca di maggiore qualità, in cerca di un centro di eccellenza (40%), in seguito a un consiglio medico (32%) oppure per poter effettuare una terapia innovativa o meno invasiva (18%). A spostarsi per necessità è stato complessivamente il 43% del campione, per impossibilità di ricevere il trattamento in un ospedale più vicino (26%), per avere tempi di attesa minori (18%), a causa di un trasferimento da altra struttura (6%) o per accesso diretto all’ospedale da pronto soccorso (2%).

Il tempo medio di permanenza in un’altra città è di circa sette giorni, un periodo che rende fondamentali realtà come la rete che ha commissionato lo studio. Con oltre 50 associazioni in Italia e 108 case di accoglienza, A casa lontani da casa permette ai pazienti di accedere a servizi di ospitalità a prezzi calmierati o gratuiti, oltre a offrire un supporto economico e psicologico gratuito per gli accompagnatori.

Nonostante il contributo delle associazioni, il fenomeno della migrazione sanitaria resta un problema che va risolto. «I dati della ricerca ci raccontano, infatti, di una inefficienza del sistema sanitario che viene scaricata sulle persone più fragili che spesso non vedono garantito il loro diritto alla salute – ha detto Lamberto Bertolé, assessore al Welfare e salute del Comune di Milano –. Questo ci impone una riflessione sulla necessità di un ripensamento complessivo degli equilibri tra i sistemi sanitari regionali e sul meccanismo dei rimborsi che non può essere più rimandato».

C’è poi il fatto che molti pazienti (l’85%) non sono a conoscenza dell’esistenza di queste opportunità di accoglienza, che peraltro attendono un adeguato riconoscimento giuridico. «Il decreto del 22 aprile 2008 del Ministero delle infrastrutture definisce gli alloggi sociali, che sono stati ripresi anche nel codice del terzo settore alla lettera Q delle attività di interesse generale – ha spiegato a Vita Luisa Bruzzolo, direttrice generale della Lega italiana per la lotta contro i tumori Lilt Milano Monza Brianza –. Manca ancora l’adeguamento regionale e, in assenza della giusta cornice legislativa, le nostre case sono equiparate a rifugi alpini, case vacanze, ostelli».

(Foto di Marek Lumi su Unsplash)

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