Prendete i siti internet dei principali quotidiani generalisti e provate a contare quanti video filmati di incidenti mortali trovate nella home page. Fatelo in diversi giorni e diversi momenti della giornata: scoprirete che ce n’è sempre almeno uno, ma possono arrivare anche fino a quattro contemporaneamente scorrendo fino in fondo la schermata. La cosa curiosa, peraltro, è che nessuno di quei giornali è solito puntare sulle notizie di colore per le proprie prime pagine cartacee. Un piccolo box o una fotonotizia per incidenti particolarmente rilevanti o curiosi talvolta si vede, ma non è certo la regola. Sul web, invece, la morte è servita a ogni ora del giorno, nelle più diverse forme. Un funambolo che manca la presa, un aereo in avaria che si schianta al suolo, un ladruncolo qualsiasi che incappa nel solito poliziotto dal grilletto facile negli Stati Uniti, un cameraman che si spinge troppo oltre nel filmare luoghi di guerra.
Ovunque c’è una telecamera che riprende qualsiasi cosa (le twin towers insegnano), ma non capiamo quale sia il passaggio che rende tali avvenimenti notizie. È nota la curiosità che attrae molti naviganti (cioè persone come noi, teniamolo presente) per i fatti più scabrosi, grotteschi, cruenti. Una miniatura con un’immagine sfocata e un titolino ammiccante tipo “Egitto, video choc: il reporter filma la sua morte” (preso nel momento in cui scrivo dal sito del Corriere) ha un suo potere d’attrazione. Non è detto che tutti debbano cliccare e vedere il video, ma è innegabile che in un angolo recondito dell’animo di chiunque c’è la voglia di vedere “la morte in diretta”. Dobbiamo accettarlo, è la natura umana, ci piaccia oppure no. Ma la domanda è: perché pubblicarlo su un sito di news? Qual è il valore informativo contenuto in quelle immagini? La risposta è semplice: nessuno. Servono solo a fare audience. Un ragionamento da direttore di tivù commerciale, più che da direttore di un quotidiano, sia pure della sua versione online.
Proprio martedì ha scritto qualcosa in merito il giornalista Filippo Facci, sulla sua rubrica per il quotidiano Libero, riferendosi in quel caso agli argomenti futili e di costume che gli era stato suggerito di trattare dalla redazione: «Ho sbirciato in giro ed ecco, tra quelle commentabili, alcune tra le notizie più diffuse: cecchini egiziani che sparano sui manifestanti dai tetti, bambini tarantini colpiti da un fulmine in spiaggia, la benzina mai così cara, un orso ucciso a fucilate in Molise, l’inesperienza del pilota che ha schiantato un Boeing. Tutti temi perlopiù tristi e drammatici e magari anche importanti, sì, ma che voi -dovete saperlo, egregi lettori- statisticamente leggerete e cliccherete meno delle notizie sulla gnocca o sulle mutande della Ravetto. Riecco una microscopica e quotidiana riproposizione, in sostanza, del dilemma che ogni giorno ci arrovella: bisogna privilegiare ciò che il pubblico deve leggere o ciò che il pubblico vuole leggere? Quanta informazione e quanto infotainment? Sbagliare la risposta a questa domanda, oltretutto, può far chiudere un giornale. Quindi non sorbitevi dei dibattiti troppo complessi sull’informazione, in futuro: uno dei nodi principali rimane questo. Se i giornali dobbiamo farli noi oppure voi». Probabilmente non c’è una risposta netta e definitiva a questa domanda. Ed è un altro indizio della crisi d’identità di cui soffre l’informazione dei grandi gruppi editoriali quando si muovono su internet. Grandi firme e ottime inchieste che si mescolano a torbide “colonnine di destra” con le curiosità più irrilevanti. I clic ci saranno pure, i pubblicitari saranno felici. Ma l’informazione, se ancora qualcuno ce l’ha a cuore, dove sta andando?