La pandemia di coronavirus ha accelerato alcuni processi che sembravano impantanati da tempo. Per esempio la “digitalizzazione”. Da un giorno all’altro, pur con tutti i problemi e le difficoltà del caso, l’università italiana si è ritrovata a dover gestire lezioni ed esami online, e ci è riuscita. Poco dopo è stato il turno della scuola in ogni ordine e grado, e non è andata male neanche lì. Nel frattempo il sistema dei medici di base scopriva lo strumento della ricetta elettronica che, oltre a ridurre le occasioni di contagio, ha fatto e sta facendo risparmiare tempo prezioso ai pazienti come ai medici. Una serie di adempimenti e servizi della pubblica amministrazione sono stati velocemente trasferiti online, anche qui garantendo continuità ai servizi e mantenendo al contempo le misure di sicurezza. Tutto questo dimostra una cosa: molte delle riforme che in Italia ci trasciniamo da decenni, si potrebbero portare a termine in una settimana. Molti interventi sono tecnicamente semplici da realizzare, ma a rallentare, o talvolta fermare, i processi sono spesso questioni burocratiche, di interessi contrastanti, di gruppi di pressione che “tirano la giacchetta” alle forze politiche affinché promuovano o ostacolino diverse iniziative. È bastato un evento esterno e imprevisto (seppure prevedibile e in una certa misura atteso) a mettere in discussione priorità che sembravano inconfutabili. Il rischio, adesso che l’epidemia è tornata sotto controllo, è che non si sfrutti appieno l’opportunità di proseguire con questo scatto in avanti per portare avanti le riforme che da decenni tutti invocano e promettono, da ogni ramo del Parlamento. È ormai scontato che arriveranno dei fondi europei per la ricostruzione. Ma non possiamo fare affidamento su quelli, perché ci vorrà del tempo prima che siano erogati, com’è normale in un’organizzazione sovranazionale che deve contemperare interessi e modi di ragionare diversi. Ma ci sono delle cose che possiamo fare subito, nell’attesa che quei soldi arrivino. Cose che ci possono fare diventare il paese che vorremmo essere, e non quello che ci raccontiamo di essere.
Salute
Il sistema sanitario lombardo, incentrato sul privato convenzionato, è un modello da rivedere, se non altro nella sua attuazione. Non si può più permettere che sia il profitto a guidare le scelte di cliniche private che ricevono fondi pubblici per operare sotto convenzione. Bisogna garantire criteri di sicurezza costruiti sui reali bisogni del sistema sanitario, per esempio prevedendo un certo numero di posti di terapia intensiva e l’operatività dei pronto soccorso nelle strutture, affinché non ci siano territori e parti di popolazione scoperte nel caso di improvvisa necessità, com’è avvenuto durante il picco della pandemia.
Responsabilità
In generale, uscendo dal contesto lombardo, l’Italia deve fare i conti con il concetto di responsabilità: meno task force e più prese di posizione chiare, dirette. La politica non può più delegare decisioni e chiamarsi fuori. L’Italia non ha bisogno di capri espiatori (che arriveranno, non c’è dubbio), ma di persone che pensino di più al mandato di cui sono temporaneamente investite, e meno all’incolumità del proprio patrimonio di consenso, se mai ne hanno uno. Non dimentichiamoci che la salute di tante persone è stata compromessa dalla chiusura dei reparti di chirurgia e dalla sospensione di vari servizi sanitari, qualcuno ne dovrà rispondere.
Una riforma alla settimana
Visto che è stato avviato un parziale processo di digitalizzazione, si continui in quella direzione, anche al fine di sbarazzarsi di tanta burocrazia. Quest’ultima non ha solo il problema di rendere difficile la vita ai cittadini, ma è anche fonte di episodi sistematici di corruzione e tangenti, difficili da tracciare e da contrastare. E si potrebbe continuare, rapidi, una riforma alla settimana, mettendo in piedi un sistema fiscale che faccia in modo che tutti paghino il dovuto. Rispettando la proporzionalità, ma recuperando l’evasione fiscale che costringe chi paga a farlo anche per chi non paga. E ancora, la settimana dopo si potrebbe prendere in mano la giustizia, per garantire la certezza della pena e tempi processuali degni di un paese civile.
Una nuova normalità
Non dimentichiamoci di tutte queste cose quando parliamo di “ritorno alla normalità”. Siamo sicuri che andasse tutto bene fino a febbraio? Vogliamo davvero tornare a quella normalità, o è il caso di cogliere l’occasione per immaginarne e attuarne una nuova? Ci siamo tutti consolati, durante il lockdown, per un momentaneo miglioramento della qualità dell’aria nelle nostre città. Teniamolo a mente, e procediamo spediti verso una green economy che sia rispettosa dell’ambiente (e quindi in definitiva dell’uomo). Speriamo, infine, che le tante cose che non hanno funzionato e le tante decisioni sbagliate prese negli ultimi tre mesi mettano in luce quanto sia pericoloso giocare a posizionare pedine in ruoli di responsabilità secondo logiche di tessere e non di titoli. Le famose competenze, tanto bistrattate in questa stagione politica (ma anche nelle precedenti, anche se se ne parlava meno), diventino l’unico parametro che regola l’accesso a incarichi di qualunque tipo, a maggior ragione se si tratta di ruoli apicali le cui azioni hanno una ricaduta sulla popolazione. Chiudiamo con un pensiero di umiltà: copiamo chi fa meglio di noi. Non dobbiamo “reinventare la ruota” ogni giorno, come si dice nel mondo anglosassone. Spesso le soluzioni sono già a disposizione, ci ha pensato qualcun altro a elaborarle e implementarle. Copiare i modelli virtuosi non è una sconfitta, ma una dimostrazione di saggezza.
(Foto di Sushobhan Badhai su Unsplash)