Alla fine di gennaio 2020, quando la pandemia era ancora agli inizi, il Wellcome Trust, tra i maggiori finanziatori di ricerche scientifiche, lanciava un appello per cambiare il sistema delle pubblicazioni. L’appello esortava gli autori degli articoli sul COVID-19 a condividerli subito come preprint (qui spieghiamo di che si tratta), invece di aspettare il processo di peer review che normalmente precede la pubblicazione.

Suggerivano inoltre che i ricercatori condividessero sempre i dati delle loro analisi, e che gli editori dessero libero accesso agli articoli pubblicati sulle riviste. Si auspicava anche che si potesse accelerare il processo di peer review, in modo che gli articoli ottenessero una validazione in tempi più rapidi.

Sono pratiche e istanze che sono sostenute da tempo nel mondo scientifico, e la pandemia è sembrata da subito una grande occasione per accelerare e consolidare ciò che già in parte stava accadendo. L’appello fu firmato da decine di finanziatori, editori e società scientifiche e in molti speravano che il sistema delle pubblicazioni scientifiche ne sarebbe uscito completamente rivoluzionato.

A oltre un anno e mezzo da quell’appello, però, le cose non sono andate esattamente così. O meglio, gli articoli condivisi in preprint dai ricercatori di ambito medico sono aumentati, spiega Jeffrey Brainard su Science, ma rimangono una piccola frazione della letteratura complessiva sul COVID-19. Gran parte degli articoli sono disponibili gratuitamente, ma l’accesso ai dati non è sempre garantito. La durata delle revisioni si è effettivamente ridotta, ma non in maniera radicale.

5 per cento

Le previsioni più ottimistiche, secondo cui i preprint avrebbero dominato la letteratura sul COVID-19, rimodulando il settore dopo la pandemia, sembrano finora errate. A maggio di quest’anno solo circa il 5 per cento di tutti gli articoli sul COVID-19 pubblicati da riviste peer-reviewed è circolato prima come preprint, secondo una stima citata da Brainard. La maggior parte dei preprint sul COVID-19 non sono invece apparsi su riviste peer-reviewed, almeno finora. E anche l’ondata di preprint pubblicati l’anno scorso si sta attenuando.

Uno dei fattori hanno indebolito questo processo è stato che non tutti gli attori del sistema hanno partecipato, ha notato Ludo Waltman del Research on Research Institute: «I finanziatori avrebbero potuto incoraggiare o addirittura rendere obbligatorio il preprinting».

Tempi e qualità

All’inizio della pandemia, gli editori hanno promesso che avrebbero accelerato il processo di revisione dei manoscritti sul COVID-19. In questo hanno avuto un certo successo: a gennaio 2020 il tempo medio di accettazione dei manoscritti era di 130 giorni. A luglio 2020 l’intervallo era sceso a circa 90 giorni. Che da un certo punto di vista è comunque un’eternità, se calato nel contesto della prima metà del 2020, quando tutto sembrava cambiare nel giro di pochi giorni.

C’è chi si chiede se il tempo guadagnato con le innovazioni proposte vada a discapito della qualità. Ma la pubblicazione dei preprint non è una novità in ambito scientifico. Tra i fisici, per esempio, è una pratica comune da decenni. L’area medica è molto in ritardo su questo, e si sperava che la pandemia l’avrebbe avvicinata ad altre discipline.

Anche se mancano studi più complessivi, si stima che solo circa lo 0,03 per cento degli articoli sul COVID-19 siano stati ritirati – poco meno che in tutte le altre discipline prima della pandemia.

La pandemia ha però reso evidente come anche la peer review non sia un metodo infallibile. Articoli di alto profilo su riviste specializzate sono stati comunque ritirati. Ricorderete poi il caso dello studio sulla presunta efficacia dell’idrossiclorichina contro il COVID-19, i cui dati si sospetta siano stati falsificati.

Articoli e dati accessibili

Per quanto riguarda l’appello di Wellcome a rendere gratuiti per tutti gli articoli e i dati sul COVID-19, i risultati sono contrastanti. All’inizio del 2020 molti editori si sono impegnati a rendere tali studi liberamente accessibili. Attualmente il 77 per cento di essi risulta effettivamente aperto e gratuito, secondo il database Dimensions. In calo rispetto al picco dell’85 per cento di maggio 2020, ma ben al di sopra del 50 per cento di prima della pandemia.

Le prime analisi suggeriscono progressi più modesti rispetto ai dati aperti (open data). Su più di 7mila preprint sul COVID-19 pubblicati su medRxiv nel 2020, solo la metà degli autori ha provveduto a condividere i dati con i colleghi, secondo una ricerca.

Nonostante i problemi e i limiti di questo processo, conclude Brainard, la pandemia ha dimostrato che cambiamenti repentini e accelerazioni nella letteratura scientifica sono sempre possibili, se c’è la volontà. In molti si augurano che i progressi fatti siano utili anche ad altri ambiti di ricerca. Per esempio quella sul clima, considerato sul lungo periodo un tema anche più importante rispetto alla pandemia, dove solo il 50 per cento degli articoli è oggi liberamente accessibile.

(Foto di JJ Ying su Unsplash)

Questo articolo è solo un pezzetto

Scrivere ci piace, ma l’attività principale di Avis Legnano è la sensibilizzazione alla donazione di sangue. Per partecipare a questo progetto basta compilare il modulo d’iscrizione.

Lo trovi qui