Il nascente governo presieduto da Mario Draghi al momento ha attratto un’unica critica: quelle delle donne del Partito Democratico, che hanno visto tre dicasteri assegnati ai propri colleghi uomini, mentre a loro non è stato riconosciuto alcun ministero. Una protesta legittima, e probabilmente il problema sta più nel partito e nella sua cultura che nelle scelte fatte dal presidente del Consiglio. Questo episodio non racconta solo un fatto specifico, ma è rappresentativa di un problema radicato nel nostro paese.

Le donne che hanno un’occupazione sono meno degli uomini, sul lavoro subiscono diversi tipi di discriminazioni e in più ci si aspetta che si occupino delle attività di cura familiare per supplire alle mancanze dello Stato. Sono problemi strutturali, in parte comuni ad altri paesi europei, ma che in Italia hanno radici più profonde. La pandemia ne ha accentuato ulteriormente la gravità, e i numeri lo confermano. Come scrive Daniela Poggio su Lavoce.info, «Durante la pandemia, le donne sono state più impegnate degli uomini nel lavoro, dovendo garantire servizi essenziali in settori a forte vocazione femminile: scuola, sanità, pubblica amministrazione, grande distribuzione. Ma con la chiusura delle scuole, hanno dovuto anche assistere i figli impegnati nella didattica a distanza, con un livello di stress elevatissimo per quasi 3 milioni di lavoratrici con un figlio a carico con meno di 15 anni (30 per cento delle occupate). Risultato? L’Istat rileva che nel terzo trimestre tra le donne è maggiore sia il calo del tasso di occupazione (–1,5 punti in confronto a –1,2 punti per gli uomini), sia la crescita del tasso di disoccupazione (+1,3 e +0,7 punti, rispettivamente) e di quello di inattività (+0,9 e +0,7 punti)».

Diventa ancora più importante, in questo contesto, investire le risorse del Recovery Fund mettendo la questione della parità di genere al centro della programmazione, e quindi del budget. È una strada che ha indicato anche la Commissione europea che, scrive Poggio, ne terrà conto nel giudicare i piani nazionali di ripresa: «Prima di entrare nel merito delle singole misure, i piani dovranno chiarire quali siano le fragilità principali in termini di parità a livello nazionale, come la crisi le abbia aggravate e con quali strumenti intendano affrontare il problema in ognuno dei capitoli d’investimento».

Purtroppo le bozze del Piano nazionale di recupero e resilienza (Pnnr) non sembrano andare in questa direzione. «Nella prima bozza (9 dicembre 2020), il Pnrr1 individua 4 obiettivi di  fondo – spiega l’economista Fiorella Kostoris sul Sole 24 Ore –, chiamati Linee strategiche e la “Parità di genere” è la quarta,  le altre essendo la “Modernizzazione del Paese”, la “Transizione  ecologica”, la “Inclusione sociale e territoriale”. Mentre queste tre si espandono in varie Missioni, la quarta diviene un sottoinsieme della  Missione 5, denominata “Parità di genere, equità sociale e coesione  territoriale”». La seconda bozza chiarirà che la Componente 1 della Missione 5, centrata sulla parità di genere, potrà contare su appena 4,52 miliardi di euro, il 2,3 per cento del totale del Piano. «La parità di genere torna come priorità trasversale, insieme a giovani e Sud – spiega Poggio –. Un fatto importante, ma certo non quanto indicarla fra le tre priorità assolute del paese. Il rischio molto concreto è di perdere non solo attenzione sul tema, ma soprattutto i soldi. La trasversalità, infatti, espressa così è un concetto generico che non comporta un impegno in termini di coperture finanziarie sulla disuguaglianza di genere».

Inoltre, la spesa non si incentra sulla questione dell’occupazione e dell’imprenditorialità femminile o altri fattori quali le «difficoltà di accesso [al mercato del lavoro] e di carriera, sulla forzata inattività, i differenziali retributivi, la segregazione, la discriminazione». Essa si focalizza invece sul ruolo della donna come madre: «L’incremento della natalità indotto dall’assegno unico del Family Act, o su target solo indirettamente o scarsamente correlati, quali la conciliazione fra impegni di lavoro e di cura, dove la spesa pubblica, almeno in un Paese civile, favorisce l’intera famiglia, non esclusivamente la lavoratrice, in prospettiva anzi segregandola ulteriormente in certi settori e mansioni». Il Pnrr2 ha dunque, così com’è, quella che Kostoris definisce una “doppia debolezza concettuale”: «Da un lato di trattare il problema della parità di genere come fosse prevalentemente una questione di equità e di coesione, mentre è soprattutto un tema di ammodernamento del Paese, dall’altro di ritenere che per le donne i problemi nel mercato del lavoro vengano particolarmente dal lato dell’offerta, dall’insufficienza delle competenze o dalla mancanza di tempo libero per carenza di nidi, asili o strutture sociali di cura, mentre in Italia sono determinati principalmente dal lato della domanda, in ragione della segregazione orizzontale e verticale e della discriminazione».

(Foto di Gabby K su Pexels)

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