Uno dei ritornelli ormai stucchevoli del dibattito pubblico è che la politica deve “tornare a parlare ai cittadini”, vivere (e viversi) più “vicina alle persone”. A guardare le prime pagine dei giornali negli ultimi tempi, però, sembra che la politica sia invece più lontana che mai.
Gli spazi maggiori delle testate nazionali sono occupati da una crisi migratoria (che poi è diventata diplomatica) che l’Italia si è fabbricata da sola, decidendo di concentrare i propri sforzi sicuritari su un aspetto piuttosto ininfluente, in termini numerici, ossia i migranti salvati dalle ONG. Questi sono infatti una piccola percentuale degli sbarchi totali, che a loro volta sono una piccola quota delle persone che entrano in maniera irregolare in Italia, la maggior parte delle quali lo fa via terra. E in ogni caso, nonostante i numeri siano in aumento rispetto agli ultimi anni (segnati dall’evento straordinario della pandemia), se confrontati con periodi precedenti e più rappresentativi è chiaro come non ci sia alcuna emergenza. Non che l’immigrazione non sia un fenomeno da gestire: ci sono tante cose da cambiare, anche a livello di diritto europeo. Ma non si tratta di un’emergenza, bensì di un fenomeno ormai strutturale delle nostre società, che come tale va affrontato. È evidente dunque che le recenti performance del governo sul tema rispondano a un approccio “identitario”, come si dice, volto principalmente a comunicare ai cittadini l’idea di questo governo rispetto ai diritti umani, al rapporto con le altre nazioni, agli equilibri politici in ambito europeo.
Tutto legittimo, per carità. Per lo meno si tratta di azioni talmente esplicite ed esibite che almeno su questo ci si può confrontare sui principi, le scelte, le contraddizioni, ognuno sostenendo la propria idea.
Il problema è che le priorità delle persone sono altre. Secondo un’indagine Ipsos Global citata da Domani, «Il 71 per cento dell’opinione pubblica dei 34 paesi monitorati ritiene che nei prossimi 10 anni i cambiamenti climatici avranno effetti gravi o molto gravi per il proprio paese. In vetta a questa classifica troviamo i portoghesi (88 per cento), seguiti da messicani e ungheresi (86), turchi e cileni (85), sudcoreani e spagnoli (83), italiani francesi e rumeni (rispettivamente all’81 per cento i primi e all’80 gli altri due)». A questa inquietudine bisognerà rispondere, non tanto per assecondare i sondaggi ma perché gli scienziati parlano chiaro ormai da molto tempo. Gli italiani sembrano averlo capito, e probabilmente si aspettano che le persone che (seppure in pochi) hanno votato si occupino di questi temi.
Più dei rave party, alle persone interessa probabilmente sapere cosa il governo e il Parlamento hanno in mente per aiutarle a far fronte all’inflazione, ai rincari dei costi dell’energia, al di là delle misure tampone che sono benvenute ma che non possono essere riproposti all’infinito.
Per di più il quadro che emerge dal Rapporto Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) 2022 su lavoro e formazione è preoccupante, come spiega l’agenzia Dire: «Nel 2021 il 68,9% dei nuovi contratti è a tempo determinato (il 14,8% a tempo indeterminato). Nell’insieme il lavoro atipico (ovvero tutte quelle forme di contratto diverse dal contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato full time) rappresenta l’83% delle nuove assunzioni, con un aumento del 34% negli ultimi 12 anni. Il rapporto rivela il crescente aumento dei contratti non standard, diffusi dopo la prima crisi 2007-2008 e diventati strutturali dopo la ripresa post-covid».
Uno dei problemi che stanno diventando sempre più strutturali è quello vissuto da chi, pur lavorando, si trova in una situazione di forte difficoltà economica e sociale. «In Italia – scrive Vita –, nel 2021, il 20,1% dei residenti era a rischio povertà con un reddito netto inferiore al 60% di quello mediano (cioè 10.519 euro). Secondo l’ultimo report dell’Istat parliamo di ben 11 milioni e 800mila persone. Il 5,6% (3 milioni e 300mila persone circa), poi, si trova in stato di grave deprivazione materiale. […] I dati e la combinazione di tre fattori – rischio povertà sulla base del reddito medio annuo, deprivazione materiale e bassa intensità di lavoro –, infine, devono preoccupare non poco quando il risultato è che 14 milioni e 983 mila persone, praticamente il 25,4 per cento dei residenti in Italia, si trova in una delle condizioni citate ed è, quindi, a rischio».
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