La pressione fiscale è scesa leggermente, il gettito fiscale è aumentato, l’economia ha visto un timido segno di ripresa, eppure l’Italia resta un Paese “proibito” per la fascia di giovani che dovrebbe farla ripartire. Sintetizzando al massimo, sono questi gli elementi che colpiscono guardando dall’alto la situazione italiana. Da un lato, infatti, alcune politiche fiscali hanno alleggerito la tassazione dei nuovi contratti di lavoro, favorendo (almeno nel breve termine) le assunzioni, dall’altro la distribuzione degli “80 euro” in busta paga ha aiutato a immettere nuova liquidità nei consumi (ovviamente non si può ricondurre il risultato unicamente a questi due fattori, ma di sicuro hanno avuto un certo peso nel modificare il quadro).

Non c’è da gioire più di tanto: gli effetti della crisi del 2007/08 sono ancora tutti lì, a ricordarci che la situazione è ben più grave di quanto vogliano farci credere. «Certo – spiega Salvatore Padula sul Sole 24 Ore –, fa effetto pensare che nello stesso periodo in cui il fisco ha chiesto (e ottenuto) dai contribuenti 17 miliardi in più, la pressione fiscale, come confermano gli ultimi dati ufficiali dell’Istat, sia diminuita al 43,3 per cento rispetto al 43,6 del 2014. Naturalmente, in tutto questo non c’è alcuna “magia”: la pressione fiscale (che peraltro include, oltre alle entrate di competenza dell’Erario, anche tutti gli altri incassi dello Stato, dai contributi sociali alle imposte locali) è il risultato di un rapporto: il Pil al denominatore, e le entrate totali al numeratore. Se il denominatore – come è accaduto l’anno scorso – cresce più del numeratore, la pressione fiscale si riduce».

A fare le spese di questa situazione sono in particolare i giovani e in generale le persone in un’età professionale ancora lontana dalla pensione. Lo scrive il Guardian in un’inchiesta che il sito Valigia Blu ha tradotto e sintetizzato. Tra le altre cose, si legge che l’Italia «risulta essere il peggiore Paese per chi ha dai 20 ai 54 anni. Al 2010, le risorse della popolazione tra 20 e i 24 anni, sono inferiori del 39 per cento rispetto alla media nazionale, del 16 per cento per la fascia di età tra i 25 e i 29 anni, del 10 per cento per quella tra i 30 e i 34 anni, del 6,4 per cento tra i 35 e 39 anni e del 2,7 per cento tra i 40 e i 44 anni. Mentre dai 45 anni in su, i profitti iniziano a salire e sono superiori alla media nazionale, con un picco del +27,5 per cento per la fascia di età tra i 60 e i 64 anni». Chi è in età più avanzata ha dunque potuto godere di quelli che oggi sono visti come “privilegi”, ossia salari più alti e un sistema pensionistico particolarmente vantaggioso. Oggi siamo nella fase di risacca, e non è con poche e timide manovre che si cambierà la tendenza.

È in queste condizioni che nascono spesso tendenze populistiche in campo economico, con la proposta da parte dei governi di misure in cui, apparentemente, tutti vincono: lo Stato ottiene maggiori entrate, il contribuente paga meno tasse. Ne parla in un articolo per Lavoce.info l’economista Fausto Panunzi: «Oggi i governi sentono la pressione di rilanciare la crescita, ma si trovano ad agire sotto il fardello di uno squilibrio nei conti pubblici e con debiti accresciuti dalla risposta a una crisi enorme per ampiezza e durata. Non è sorprendente allora che germoglino soluzioni win-win, come la riduzione delle tasse di qualche decina di miliardi senza alcuna revisione della spesa pubblica o di clausole di salvaguardia superate con “maggiore flessibilità”. Se la riduzione delle aliquote fiscali – o una maggiore spesa pubblica – generasse una crescita così forte da non far peggiorare i conti pubblici, chi potrebbe mai obiettare? Populismo non è certo perseguire oggi politiche economiche che stimolino l’economia. Quello, come ci ricorda costantemente il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, è un dovere dei governi europei. Populismo è cercare di farlo avendo in mente solamente il consenso elettorale».

L’impegno maggiore che si chiede al governo è sulla riduzione della spesa pubblica – sulla quale restano ampi margini di manovra –, che possa compensare politiche di alleggerimento fiscale. Se anche la pressione fiscale si riduce, spiega Padula, «Non si riduce, però, la sensazione di un fisco che non allenta la presa e che continua ad avanzare pesanti richieste nei confronti dei contribuenti, persone fisiche o imprese che siano. Così, le riduzioni di prelievo che qua e là si sono viste finiscono per essere oscurate dall’idea che si continuano a pagare troppe tasse. Per molti sono arrivati gli “80 euro” (che come sappiamo non sono tecnicamente un taglio di tasse). Sull’Irap, per le imprese, il 2015 ha portato l’azzeramento dell’imposta regionale sulla componente lavoro, del quale si vedono i primi effetti. Sono state fatte 750mila assunzioni con lo sgravio contributivo. Così la pressione fiscale scende, ma non nella percezione dei cittadini. Perché il “peso individuale” del fisco resta per tutti (ovviamente, per tutti quelli che pagano) a livelli troppo elevati, soprattutto quando si mettono in relazione la quantità del prelievo e la qualità (e quantità) dei servizi ricevuti».