Nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne, più che affrontare il tema della violenza fisica, vorremmo parlare di gender gap, ossia di divario nella retribuzione dovuto alla differenza di genere. I maltrattamenti, l’aggressione fisica e verbale, sono le manifestazioni più evidenti della violenza, ma questa agisce anche per altre vie, più subdole e opache. Per dirla con Lea Melandri, «Il residuo più arcaico e più “selvaggio” di un potere che si è incorporato nel tessuto sociale tanto da scomparire dalla coscienza, riemerge paradossalmente come “attualità” nel momento in cui tornano a farsi strada tra le donne spinte emancipatorie e liberatrici: la richiesta di una presenza femminile paritaria “ovunque si decida”, la critica ai fondamentalismi di ogni specie, la messa in discussione della centralità del lavoro e dell’operaismo nelle politiche della sinistra, il ripensamento di tutte le dualità, a partire da quella che ha contrapposto e complementarizzato femminile e maschile, biologia e storia, individuo e società».
La negazione della possibilità di esprimere se stesse negli stessi ruoli e con le stesse retribuzioni degli uomini (se non a patto di sacrifici per lo meno doppi) è la forma di violenza che prelude a tutte le altre, in quanto definisce la donna “per difetto”: «Una donna può fare tutto ciò che fa un uomo, tranne…». I dati dicono che il problema è reale e attuale. Il Global gender gap, l’indice che misura la disparità di “peso” delle donne nei diversi settori della vita economica, sociale e istituzionale di diversi Paesi, vede da anni l’Italia in posizioni di rincalzo: «L’Italia registra un divario di genere del 44,3 per cento a fronte di una media europea del 41 per cento», scrive Jacopo Ottaviani su Internazionale. Sul divario salariale il nostro Paese è poi particolarmente discriminatorio: «Nell’ultimo decennio il divario economico tra donne e uomini nel mondo si è ridotto solo del 3 per cento. Il che significa che se non si cambia ritmo ci vorranno 118 anni per chiuderlo del tutto».
Nonostante ciò, qualche miglioramento negli ultimi anni è stato registrato: «l’Italia è salita di 28 posizioni dal 2014 al 2015 nella classifica generale della disparità di genere, passando dal 69esimo al 41esimo posto (era al 71esimo nel 2013, all’80esimo nel 2012, al 74esimo nel 2011 e nel 2010, al 72esimo nel 2009, al 67esimo posto nel 2008, all’84esimo nel 2007 e al 77esimo nel 2006). Questo si deve soprattutto al fatto che negli ultimi anni sono aumentate le donne nelle istituzioni politiche e nei consigli di amministrazione delle aziende quotate in borsa». Secondo i calcoli del comitato femminista ma V?ra Jourová, la disparità di trattamento economico si traduce, su base europea, nel fatto che le donne lavoreranno gratuitamente questo mese e il prossimo. Tale è lo squilibrio salariale tra uomini e donne, confrontando i livelli di stipendio medi di entrambi.
C’è poi un altro tipo di violenza, che consiste nel dimenticare, nel non citare nelle cronache, nel fare finta che non accada. Ci pensa Cristina Galasso sul proprio profilo Medium, dove pubblica un articolo in cui denuncia il fenomeno della violenza contro le donne disabili, discriminate due volte in quanto appartenenti a una minoranza particolarmente vessata e poco raccontata. «Si tratta di una violenza silenziosa, mimetica, da cui è molto più difficile uscire – scrive Galasso –: solo nel 10 per cento dei casi la donna disabile denuncia la violenza e quando lo fa spesso incontra persone impreparate, o peggio, incredule, indifferenti. Raramente trova ascolto, sostegno, giustizia. Le donne con disabilità sono considerate e rappresentate come esseri asessuati e quindi la violenza nei loro confronti è ancora più ‘invisibile’, addirittura paradossale». Associazioni come Uildm e Anffas hanno avuto il merito di denunciare per prime il problema, ma sui mezzi d’informazione, purtroppo, al momento non c’è molto spazio per l’argomento.
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