Negli ultimi anni sta riscuotendo sempre maggiore successo l’idea che ridurre le ore di lavoro settimanali, a parità di stipendio, possa in certi casi lasciare invariata (o addirittura accrescere) la produttività, rendendo al contempo le persone più felici. Esperimenti su larga scala su settimane di lavoro di quattro giorni, invece dei canonici cinque, confermano questo assunto.
Probabilmente in diversi settori si tratta di un’idea interessante e da studiare ulteriormente. Eppure, dopo due anni di pandemia in cui molte più persone del solito hanno riportato esperienze di burnout e stress legato all’eccesso di lavoro, bisogna chiedersi se per certi tipi di lavoro una riduzione dell’orario sia la soluzione.
«Quando si tratta di persone che lavorano al computer e alla posta elettronica – ha scritto Cal Newport sul New Yorker –, che al momento sembrano quelle più colpite dal burnout, non sono convinto che gli appelli a ridurre la lunghezza della settimana lavorativa possano davvero alleviare ciò che li affligge».
Secondo Newport, la differenza fondamentale tra un lavoratore dell’epoca industriale e l’impiegato tipo di oggi, è il grado di autonomia. Un tempo (ma ancora oggi per certi tipi di lavoro), il lavoratore aveva pochissimo controllo su ciò che faceva durante il suo turno. Una volta timbrato il cartellino eseguiva una serie di compiti assegnati. In un ufficio tipico di oggi, la situazione è all’opposto. «Ora hai il controllo quasi totale di come riempi ogni minuto – scrive Newport –. Nessuno ti chiede di timbrare l’entrata e l’uscita. Ti è richiesto invece che tu “sia reattivo” e “porti a termine le cose”. Questa autonomia ha fatto sì che il “lavoro d’ingegno” si evolvesse senza controllo fino a prendere una forma sempre più insostenibile. Il problema, in questo processo, non è quante ore ti viene chiesto di lavorare, ma il volume di lavoro che ti viene assegnato in ogni momento».
A livello evolutivo, spiega Newport, gli esseri umani sono abili nell’elaborare piani strategici a lungo termine per raggiungere gli obiettivi. La nostra capacità di pianificazione, tuttavia, va in crisi quando ci ritroviamo con una casella di posta in arrivo piena di centinaia di messaggi e un elenco di attività che riempie diverse pagine. Quando questo accade, i nostri meccanismi di funzionamento esecutivo vanno in cortocircuito, provocando sensazioni di ansia e disagio.
Queste considerazioni sono aggravate dal fatto che ogni nuovo progetto o compito porta con sé una serie di attività collegate, che tipicamente prevedono di collaborare con altre persone per essere portate avanti. «Se accetti di creare un piano di marketing per un nuovo prodotto – spiega Newport –, oltre a scrivere effettivamente il piano, saranno necessarie diverse riunioni e una montagna di mail per mettere insieme le informazioni necessarie e mantenere il progetto sulla buona strada. Quando si affrontano troppi progetti di questo tipo contemporaneamente, la combinazione di tutte le riunioni e dei relativi messaggi può arrivare a occupare la maggior parte delle giornate, creando una specie di spirale in cui si passa più tempo a parlare di lavoro che a portarlo a termine: una forma di frenesia che amplifica la frustrazione e, alla fine, porta al burnout».
Cal Newport propone dunque, prendendo le mosse dal celebre movimento Slow inaugurato da Slow Food qualche decennio fa, il concetto di Slow Productivity, o produttività lenta, il cui obiettivo è mantenere il volume del singolo lavoratore a un livello sostenibile. Si potrebbe pensare che riducendo la quantità di lavoro che ogni dipendente affronta in un dato momento, diminuisca anche la quantità di lavoro che un’organizzazione è in grado di completare, rendendola meno competitiva. Secondo Newport è un timore infondato. Come detto, quando il volume di lavoro aumenta, aumentano anche le mansioni collegate e lo stress, riducendo sia il tempo rimanente per eseguire effettivamente i compiti che la qualità dei risultati. Se invece si permette all’individuo di lavorare in modo più sequenziale, concentrandosi su un piccolo numero di cose alla volta, aspettando che abbia finito prima di aggiungere nuovi obblighi, il tasso di completamento dei diversi compiti potrebbe aumentare.
La sfida più grande della produttività lenta, spiega Newport, è che richiede sistemi per gestire l’assegnazione di nuovo lavoro: «Se sei un capo e ti viene in mente un compito importante, non puoi più semplicemente assegnarlo via mail a uno dei tuoi subordinati e andare avanti con la tua giornata. La Slow Productivity richiede di registrare questa nuova incombenza in un sistema dove possa essere ordinato per priorità e poi assegnato quando la persona giusta ha il tempo disponibile. Quando qualcuno finisce un compito, una decisione collettiva può essere presa su cosa assegnarle dopo, su una piattaforma in cui tutti possono vederlo. I compiti amministrativi più piccoli potrebbero invece essere affrontati con un sistema più agile».
Tutto ciò, naturalmente, è faticoso per chi prende le decisioni. Sarebbe molto più facile mandare una mail al collega per assegnargli un progetto o fargli una domanda veloce. Ma nel mondo del lavoro ciò che è più facile e ciò che è più efficace raramente coincidono. «Gli svantaggi di della situazione attuale – conclude Newport – sono così gravi che bisogna prendere in considerazione soluzioni più elaborate, anche se all’inizio complicate da mettere in pratica».
(Photo by Craig Pattenaude on Unsplash )
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