Nei giorni scorsi sono comparsi in vari punti del Ponte della Costituzione, che attraversa il Canal Grande di Venezia, dei cartelli che segnalavano il divieto di accesso alla struttura per le persone con disabilità. L’intento era ovviamente provocatorio, e infatti ad accompagnare il simbolo di una carrozzina cerchiata e barrata c’era un messaggio che diceva «Io non posso transitare, sopra questo ponte costato appena 11,3 milioni di euro, ma progettato da una famosa archistar». Non si tratta di un’azione anonima, bensì di un’iniziativa messa in atto dall’artista Pep Marchegiani, che ha sempre legato il proprio nome a opere molto legate all’attualità e al mondo spettacolarizzato in cui siamo costretti ormai da decenni. In questo caso, la provocazione insita nell’opera sfocia nella denuncia sociale, e mette in evidenza i limiti di un progetto che, al netto delle considerazioni sull’estetica della struttura realizzata da Santiago Calatrava, porta con sé una valutazione dubbia circa i costi dell’opera e un’illogica esclusione delle persone con disabilità dalla sua fruizione. Se si può accettare infatti che le opere architettoniche del passato presentino criticità e aree inaccessibili, provenendo da un mondo del tutto diverso da quello odierno, è invece grave che tale parametro non sia stato tenuto nella dovuta considerazione nella realizzazione di un ponte inaugurato solo qualche anno fa.

I cartelli proponevano tre domande al pubblico, come riporta il Gazzettino: «Come mai l’archistar Calatrava e tutti gli esperti coinvolti hanno evidentemente e pesantemente sbagliato la spesa preventivata? Perché non hanno minimamente considerato la pericolosità dei materiali usati? Se un ponte per natura dovrebbe unire, per quale motivo il suddetto crea una divisione tra i portatori di handicap e le cosiddette persone “abili”?». Rispetto al primo punto la Corte dei Conti ha aperto un’inchiesta già nel 2008, per verificare come mai ci sia stata una lievitazione dei costi che ha portato dai 6,7 milioni di euro previsti per un lavoro che doveva essere pronto in un anno e mezzo, agli 11,3 milioni spesi in quasi sei anni. Quest’ultima cifra non comprende 1,8 milioni di euro (anche qui il costo effettivo è quasi il doppio rispetto al milione di euro preventivato) che sono stati ulteriormente spesi per realizzare l’“ovovia” che permette anche a portatori di handicap, anziani e accompagnatori di muoversi tra le sponde del canale. Sulla pericolosità dei materiali, Marchegiani si riferisce probabilmente alla scivolosità (soprattutto quando piove) del vetro e marmo usati per la realizzazione (il che si ripercuote ancora sui costi, visto che sostituire una lastra danneggiata può costare fino a 7mila euro, essendo ognuna un pezzo unico). Da ultimo la questione principale, ossia la natura di separazione costituita da un ponte a gradini, in cui nessuno ha previsto, se non in un secondo momento, il fatto che tale struttura escludeva completamente le persone con difficoltà di deambulazione.

Forse, allargando lo sguardo, di fronte a un insuccesso del genere dovremmo accettare il fatto che non siamo una società in grado di esprimere grandi capolavori architettonici a qualsiasi costo. L’aggettivo “faraonico”, talvolta attribuito ad alcune opere, ci riporta a un mondo in cui esisteva la schiavitù, e in cui c’era un sistema politico che non prevedeva il concetto di risparmio e razionalizzazione dei costi nella costruzione di opere pubbliche. La realizzazione di grandi opere era fonte di prestigio per la classe dirigente, e questo bastava. Oggi non è più così, la nostra società non avrebbe mai potuto partorire San Pietro, il Duomo di Milano, il Colosseo o la Reggia di Caserta. I nostri progettisti e chi commissiona i loro lavori devono confrontarsi con una realtà diversa, più complessa e legata a un uso ponderato delle risorse. Una realtà forse meno romanzesca e più pragmatica, ma dove tutti hanno pari dignità, e quindi un ponte, per quanto bello da vedere, deve essere soprattutto uno strumento comodo affinché tutti possano passare da una parte all’altra liberamente.