Ieri ricorreva la Giornata internazionale per i diritti del migrante. La data celebra l’approvazione da parte dell’ONU della Convenzione per la protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, licenziata nel 1990. A oggi, la convenzione è stata ratificata principalmente da paesi caratterizzati da una forte emigrazione. Per avere una qualche credibilità, però, questa convenzione dovrebbe essere ratificata anche dai paesi che storicamente hanno ricevuto e che ricevono i migranti. Questo finora non è accaduto, e nessun paese europeo, Italia compresa, ha mai recepito il documento. Se si somma la popolazione di tutti i paesi che l’hanno fatto, si arriva solo a un quarto della popolazione mondiale.

La Convenzione riconosce la legittimità dei diritti dei migranti regolari, sottolineando che anche quelli irregolari devono vedere rispettati i loro diritti fondamentali. L’articolo 7 in particolare precisa tali diritti devono essere tutelati senza distinzioni di sesso, colore della pelle, lingua, religione, etnia, ecc. L’articolo 29 si occupa invece dei diritti dei figli dei lavoratori migranti. La Convenzione propone azioni per eliminare i movimenti clandestini, in particolare combattendo la diffusione di false informazioni nei paesi di partenza e punendo trafficanti e datori di lavoro di migranti senza documenti.

Nel ribadire l’importanza che il governo italiano, al pari degli altri a livello europeo, ratifichi la Convenzione, ci sembra utile parlare anche dei dati rispetto alla narrazione che si fa delle migrazioni. Quest’ultima costituisce infatti un ostacolo alla possibilità di parlare con serenità di questi temi e formarsi un’opinione che non sia condizionata da paure, pregiudizi, disinformazione.

Ne parliamo grazie al Dossier statistico immigrazione, pubblicato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali e commentato dal sociologo delle migrazioni Maurizio Ambrosini su Lavoce.info. Un elemento che i dati contenuti nel documento aiutano a smontare riguarda una parola molto usata negli ultimi anni: clandestinità.

Al contrario di quanto si possa pensare, una larga maggioranza delle persone che arrivano nel nostro paese “illegalmente” si vede riconosciuta una qualche forma di tutela. «Per la precisione, nel 2022 su 53.060 decisioni in primo grado, i dinieghi sono stati poco più della metà (51,6 per cento), mentre 25.680 hanno ottenuto un esito positivo: 7.610 lo status di rifugiati pleno iure ai sensi della Convenzione di Ginevra; 7.205 la protezione sussidiaria, ossia quella relativa alla provenienza da un paese in guerra o all’appartenenza a una minoranza perseguitata; 10.865 la protezione speciale. Se però chi ha ricevuto un diniego riesce a presentare un ricorso, e quindi a esporre il suo caso di fronte a un giudice terzo, con l’assistenza di un avvocato, i risultati cambiano: su 19.355 decisioni assunte in seconda istanza, il 72 per cento ottiene un esito positivo. Nel 2022 13.980 persone hanno potuto così raggiungere l’agognato permesso per rimanere in Italia legalmente».

Ciò significa che la maggior parte delle persone che arrivano nel nostro paese dalle varie pericolosissime rotte migratorie, nella quale molti di loro purtroppo perdono la vita, hanno i requisiti per ricevere una tutela. È un dato su cui è utile riflettere, ancora prima di passare alle conclusioni. Dobbiamo “prenderceli tutti noi?”, certo che no. Men che meno intendiamo dire che le regole che ci siamo dati a livello europeo vadano bene così come sono. «Resta sullo sfondo un regolamento di Dublino sempre più irrealistico e disfunzionale – scrive Ambrosini –. I rifugiati hanno progetti, aspirazioni, legami sociali. Costringerli a rimanere nel primo paese di approdo non fa che prolungare situazioni opache, sfruttamento, intermediazioni illecite e onerose, esposizione a circuiti illegali».

Se non torniamo però a discutere nel merito del fenomeno, a livello italiano ed europeo, non usciremo da logiche emergenziali che producono solo sofferenza. Purtroppo le decisioni politiche prese negli ultimi anni hanno forse avuto efficacia in termini di retorica, ma stanno creando molti più problemi di quelli che risolvono. Per dirla con Ambrosini, «Negare l’asilo senza avere la capacità di rimpatriare aumenta soltanto sofferenza ed emarginazione, con inevitabili ricadute sulla vita urbana».

Le soluzioni ci sono, e sono anche molto più pragmatiche di quanto si possa pensare: «Da una parte ci sono datori di lavoro alla ricerca di manodopera, dall’altra persone giovani, atte al lavoro, in cerca di un futuro. Una passerella normativa che consentisse il transito dal canale dell’asilo a quello del lavoro risolverebbe due problemi in un colpo solo».

(Foto di ev su Unsplash)

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