La ricerca di base, come abbiamo spiegato in diverse occasioni, è un capitolo di spesa fondamentale per l’Italia e per l’Europa, e l’emergenza sanitaria in corso ne è stata una chiara (e drammatica) dimostrazione. Nel prossimo bilancio settennale europeo, al comparto della ricerca saranno dedicati circa 94 miliardi di euro, in aumento rispetto agli 80 miliardi del periodo 2014-2020. Dei tre “pilastri” in cui si divide Horizon Europe, però, a ricevere la spinta maggiore saranno il secondo (collaborazioni tra accademia e grande industria) e il terzo (innovazione) mentre il primo, più incentrato sulla ricerca di base, vedrà contrarre la propria quota. Se nel precedente bilancio raccoglieva infatti il 32 per cento delle risorse, dal 2021 ne raccoglierà solo il 25 per cento. Ne emerge un’Europa più interessata alla ricerca applicata dunque, e meno alla ricerca “pura”, ma comunque propensa a stanziare finanziamenti sostanziosi per alimentare entrambe.
Carlo Canepa su Valigia Blu ha ricostruito la situazione italiana, confrontandola con quella europea, anche alla luce di quanto contenuto nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), ossia il documento con cui spiegheremo alla Commissione europea come abbiamo intenzione di spendere i 209 miliardi del Next Generation EU. «Secondo i dati Istat più aggiornati, nel 2018 in Italia la spesa complessiva in “ricerca e sviluppo” è stata di 25,2 miliardi di euro, una cifra che equivale a poco più dell’1,4 per cento del Pil (per il 2019 le previsioni parlano di una cifra intorno ai 25,9 miliardi) e che tiene conto sia dei soldi pubblici che di quelli privati. […] Il contributo maggiore è stato perlopiù quello delle imprese, che ha continuato a crescere nel tempo, mentre quello dello Stato no. In rapporto al Pil, la spesa statale dell’Italia in ricerca è di poco inferiore allo 0,5 per cento del Pil (circa 9 miliardi di euro), abbastanza stabile negli ultimi anni». Il confronto con altri Paesi può aiutare a mettere a fuoco le carenze dell’Italia sugli investimenti in ricerca: «Mentre l’Italia spende in questo ambito, come abbiamo visto, poco più dell’1,4 per cento del suo Pil, in Francia questa percentuale è del 2,2 per cento, in Germania del 3,1 per cento e nel Regno Unito dell’1,7 per cento. Tranne la Spagna (1,2 per cento), facciamo peggio di tutti gli altri grandi Paesi europei, e siamo a livelli inferiori rispetto alla media Ue, che si attesta intorno al 2,2 per cento». Una relazione del Consiglio nazionale delle ricerche è piuttosto impietosa: «Rispetto al settore pubblico, si è fatto riferimento alla inadeguatezza dei finanziamenti che si aggiungono ad una mancata programmazione di medio e lungo periodo e a una diffusa sfiducia, più o meno palese, verso gli effetti positivi di ricerca e innovazione, a cui il “sistema paese” riesce parzialmente a ovviare assorbendo risultati scientifici conseguiti altrove –, si legge nell’approfondimento del Cnr –. Infine, è stato notato che l’integrazione tra le varie componenti del sistema della ricerca e dell’innovazione è spesso troppo scarsa, non riuscendo ad innestare quei circoli virtuosi che portano in altri paesi a strette collaborazioni tra ricerca universitaria e imprese private, tra enti pubblici di ricerca e imprese pubbliche». Anche l’Italia, così come la Commissione europea, è più votata alla ricerca applicata, cui è destinato il 40,9 per cento dei finanziamenti. Segue lo sviluppo sperimentale al 37,7 per cento, mentre la ricerca di base è al terzo posto con il 21,4 per cento (circa 5,4 miliardi).
Piano Amaldi e Piano di ripresa
Nei mesi scorsi si è parlato del “piano Amaldi”, ossia una proposta di misure portata avanti dal fisico Ugo Amaldi e sottoscritta da diversi scienziati, che indica come obiettivo principale il raddoppio della componente pubblica nel finanziamento alla ricerca, passando dallo 0,5 per cento all’1 per cento da qui al 2026. Il piano chiede inoltre che siano aumentate le borse di studio per i dottorati di ricerca e gli organici degli atenei e degli istituti di ricerca. Questa serie di proposte si è fatta notare al punto da essere citata nella bozza di Pnrr attualmente in discussione in Parlamento. «Alla missione “Istruzione e ricerca”, secondo il Pnrr proposto dallo scorso governo, andranno 28,5 miliardi di euro (di cui quasi 4,4 miliardi per progetti già previsti), sugli oltre 220 miliardi che l’Italia si aspetta di ricevere dal Next generation Eu entro il 2026 – spiega Canepa –. Alla componente “Dalla ricerca all’impresa” andrebbero circa 11,8 miliardi (Tabella 1), mentre a quella “Potenziamento delle competenze e diritto allo studio” oltre 16,7 miliardi. […] Secondo Amaldi e colleghi, gli investimenti previsti non sono sufficienti a raggiungere i livelli di spesa degli altri Paesi. In particolare i promotori del “Piano Amaldi” denunciano l’assenza di risorse per “aumentare il numero di dottorandi e reclutare 25 mila nuovi ricercatori al ritmo di 5 mila ricercatori l’anno”, stimate in 4 miliardi in cinque anni».
(Foto di Michal Jarmoluk su Pixabay)
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