Negli ultimi anni la ricerca scientifica ha iniziato a ragionare e interrogarsi del proprio impatto ambientale. Potenti calcolatori che elaborano algoritmi molto complessi, banche dati, strumenti di osservazione, ma anche viaggi e consumi legati all’attività di ricerca: tutto concorre a consumare energia, con una ricaduta sull’ambiente.
Un articolo su Nature cita il caso di Michael Inouye, un biologo computazionale presso un centro di ricerca australiano, che nel 2020 ha iniziato a misurare le emissioni di anidride carbonica delle ricerche del proprio team. Il progetto ha dato vita a Green Algorithms, un calcolatore online gratuito che consente di stimare l’impatto ambientale dei progetti.
Inouye l’anno scorso ha poi fatto un passo avanti. Dopo aver calcolato le emissioni di un progetto sulla genetica umana e l’alimentazione, il suo gruppo ha piantato 30 alberi per contrastare le emissioni. Non è il solo. Con l’aumentare dell’impatto del cambiamento climatico, i ricercatori di settori che spaziano dall’astronomia alla biologia hanno lavorato per capire e affrontare le fonti delle proprie emissioni. Ma gli ostacoli sono tanti.
Nature prosegue citando il caso di un gruppo di scienziati dell’Istituto di ricerca di astrofisica e planetologia di Tolosa, in Francia, che nel 2019 ha misurato le proprie emissioni di gas serra. Queste comprendevano elettricità, riscaldamento, acqua, aria condizionata, viaggi professionali e l’energia necessaria per il calcolo. L’osservatorio si è rivelato il maggiore agente d’inquinamento: in quell’anno, l’impatto attribuito all’uso dei dati dell’osservatorio è stato di 4.100 tonnellate di anidride carbonica, l’equivalente di 2.050 auto a benzina in funzione tutto l’anno.
Un’opzione suggerita per “decarbonizzare” il lavoro scientifico in ambito astronomico è sospendere la raccolta di nuove informazioni e fare ricerca sui dati archiviati. Spesso infatti, ha spiegato un ricercatore, si impiegano un paio d’anni per lanciare un nuovo osservatorio, lo si usa per due o tre anni per fare analisi dei dati, e poi si passa al progetto successivo. Ma il satellite in orbita è ancora in funzione e continua a fornire dati validi.
I ricercatori biomedici devono affrontare problemi simili: gli studi clinici possono infatti essere ad alto impatto. In questo caso il trasporto dei materiali per la sperimentazione e l’energia per alimentare gli edifici di coordinamento producono le emissioni maggiori.
Una possibile via d’uscita, suggeriscono i ricercatori, potrebbe essere continuare a utilizzare le strategie di telemedicina attuate durante la pandemia, come ottenere il consenso dei pazienti e fare visite di controllo da remoto, o chiedere ai pazienti di indossare dispositivi di monitoraggio della salute.
Ma ridurre le emissioni della ricerca su larga scala richiede un sostegno istituzionale. «La situazione non è molto diversa da quella che si vive come cittadini – ha spiegato un astrofisico dell’istituto francese –. Ci sono cose che si possono fare da soli, nel proprio contesto locale. Ma ci sono dei limiti, e non si può sfuggire alle decisioni politiche a un certo punto».
E il tempo per trovare un accordo sta per scadere, aggiunge Nature. Il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico ha fissato l’obiettivo net zero per il 2050. Il momento in cui il mondo si è avvicinato di più a una riduzione così drastica è stato durante le chiusure per la pandemia, che hanno abbassato le emissioni globali di CO2 di quasi il 10 per cento. È l’obiettivo che dovremmo raggiungere ogni anno.
Un modo per fare passi avanti sarebbe chiedere agli scienziati strategie di riduzione delle emissioni come condizione per ottenere finanziamenti o assunzioni. Ma si tratta di una richiesta impegnativa per gli istituti di ricerca, che non sono abituati a ragionare in tal senso. È una sfida soprattutto per le grandi organizzazioni, che hanno meccanismi consolidati e difficili da cambiare.
(Foto di Anshul Jain su Unsplash)
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