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L’eterno dibattito, tutto italiano, sull’utilità degli investimenti nella ricerca come strumento per assicurare un futuro di crescita al Paese, trova in un articolo di Giuseppe Remuzzi un’ulteriore puntualizzazione. Riprendiamo il suo testo dal Club de La Lettura.

«Politici e leader della maggior parte dei Paesi hanno perso completamente i contatti con la realtà della ricerca». Comincia così un commento di Amaya Moro-Martin pubblicato su Nature. «Sembrano non sapere — prosegue — che quanto più la ricerca è forte, tanto meglio andrà l’economia», e questo è specialmente vero per i Paesi dove la crisi si sente di più. I politici invece cosa fanno? Tagliano la ricerca e così rendono quei Paesi ancora più vulnerabili. «Ci sono tanti esempi — continua la Moro-Martin, un’astrofisica americana membro della commissione dell’Euroscienza —, in Italia per esempio il reclutamento dei ricercatori è calato del 90 per cento e quello che si spende in ricerca fondamentale è calato al punto che non è rimasto più nulla». Ci sono problemi anche in Spagna, dove gli investimenti sono calati del 50 per cento e degli scienziati che vanno in pensione viene sostituito il 10 per cento. La situazione è molto critica in Grecia e Portogallo. E in Germania? È tutto diverso. Anche là produzione ed esportazioni sono calate e tre anni fa hanno tagliato il bilancio federale di 80 miliardi, ma hanno aumentato del 15 per cento gli investimenti in ricerca, soprattutto biomedica, e continuano a farlo. Il 30 ottobre sono stati stanziati oltre 25 miliardi di euro. E sì che la Germania spende già 100 miliardi all’anno ed è il quarto Paese al mondo dopo Stati Uniti, Cina e Giappone per attenzione alla ricerca. Gran parte di quei soldi vanno alle circa 300 università, che insieme contano oltre 2 milioni e mezzo di studenti, 400 mila in più del 2005. Ma c’è dell’altro: governo federale e Länder hanno siglato un accordo per garantire un aumento dei finanziamenti a quattro organizzazioni di ricerca non universitarie, fra cui gli Istituti Max Planck. Insieme, le quattro organizzazioni contano 254 istituti e il budget è passato dai 5 miliardi e 200 milioni del 2005 ai quasi 8 miliardi di oggi. Le priorità? Energia (soprattutto rinnovabile) e salute, con un occhio di riguardo all’invecchiamento della popolazione. Nel 2016 Berlino investirà di più, con un aumento progressivo del 3 per cento all’anno fino al 2020.

Non è così negli Stati Uniti: un editoriale di Nature del gennaio 2015 fa vedere che i finanziamenti pubblici per la ricerca non aumenteranno, almeno quest’anno, e se si tiene conto di aumento dei costi e inflazione, vuol dire una riduzione che potrebbe toccare il 20 per cento. In America però dove non arriva il pubblico arriva la filantropia privata. E la cosa prende sempre più piede. Ci sono persino scienziati che lasciano il laboratorio per occuparsi di mettere in piedi fondazioni private (questo è successo anche da noi con Telethon), con l’obiettivo di aiutare gruppi di ricerca in settori particolari.

L’Italia invece è lontanissima dai progetti di investimento pubblico della Germania e dalla visione dei filantropi americani. Peccato, perché c’è un solo modo per uscire dalla crisi, più soldi pubblici per la ricerca e saper «corteggiare» i filantropi come negli Stati Uniti. Nel 2010 Obama aveva lanciato Star Metrics per chiedere agli scienziati di aiutarlo a capire che cosa abbia fruttato all’economia americana tutto quello che era stato investito in ricerca negli ultimi anni. Ne è uscito un rapporto di 600 pagine. Sembra fuori discussione che gran parte della crescita del Paese dipenda dall’aver investito in ricerca e l’esempio più convincente è quello del genoma. Per decodificare quello dell’uomo, negli Stati Uniti si sono investiti 3,8 miliardi di dollari, ma il ritorno per l’economia è stato di 800 miliardi in 13 anni: vuol dire che un dollaro speso ne rende 140. Solo nel 2010 quel progetto ha consentito di creare 310 mila posti di lavoro (e dal 1998 al 2010 i posti in più sono stati 3 milioni e 800 mila). Ci sono costi associati all’investire in ricerca: per esempio, le cure di oggi mantengono in vita grandi anziani che qualche anno fa sarebbero morti; è certamente un successo della ricerca medica, ma il mantenere in vita queste persone costa. Se parli coi nostri politici ti dicono che non è tempo di pensare alla ricerca, è un momento difficile. Ma quando Abraham Lincoln lanciò il Morrill Act — il decreto che metteva le basi perché i giovani di talento potessero accedere all’educazione avanzata — si era in piena guerra civile. A chi gli chiese perché, Lincoln rispose: «Per dare un futuro alla nazione». Si chiama lungimiranza. Certo, lui era Lincoln, ma la cosa che a me fa più impressione è che questo succedeva il 22 aprile 1863. Sono passati più di 150 anni. Da noi si fanno previsioni, proclami e promesse. Ma tutto lascia il tempo che trova.