Da tempo in ambito scientifico si discute dell’opportunità di avere un approccio di genere allo studio delle malattie. Non si tratta solo di coinvolgere più donne quando si conducono test clinici per lo sviluppo di nuovi farmaci e terapie (che già di per sé è un aspetto problematico), ma anche di incrementare l’attenzione e i finanziamenti verso le patologie che colpiscono più spesso le donne rispetto agli uomini.
Purtroppo, questo tipo di la sensibilità non è maggioritaria all’interno della medicina e della politica, e il lavoro da fare è ancora molto. Ne ha scritto di recente su Nature Emily Jacobs, docente di psicologia all’università della California. «Da quando la risonanza magnetica è entrata in uso negli anni ’90, sono stati pubblicati più di 50.000 articoli sul cervello umano – ha spiegato –. Ma di questi, meno dello 0,5% prende in considerazione fattori di salute specifici per le donne». La salute delle donne è poco studiata e poco finanziata. Questa dimenticanza, ha proseguito Jacobs, è particolarmente preoccupante se si considera che il 70% delle persone affette da Alzheimer e il 65% di quelle affette da depressione sono donne. Alcune patologie neurologiche sono diffuse solo tra le persone che hanno il ciclo mestruale: la depressione post-partum, la “nebbia cerebrale” in perimenopausa, l’endometriosi e l’emicrania mestruale, per citarne alcune. Nel mondo, circa 400 milioni di donne assumono contraccettivi ormonali. Alcune di queste soffrono di depressione come effetto collaterale, eppure non è stato condotto alcuno studio di neuroimaging completo per capire come la soppressione ormonale a lungo termine influenzi il cervello.
Il problema non è la rappresentanza, chiarisce Jacobs: circa il 50% delle persone coinvolte negli studi di neuroimaging elencati su OpenNeuro.org sono donne. Semplicemente, i ricercatori scelgono di non studiare (e i finanziatori di non finanziare) questioni di salute specifiche delle donne, il che forse non sorprende dato che l’80% dei neuroscienziati in servizio sono uomini.
La comunità scientifica sta iniziando solo ora a rendersi conto del forte squilibrio, prosegue Jacobs. Assegnare lo stesso valore alla salute di uomini e donne richiederà un cambiamento globale nella cultura scientifica.
A questo proposito, sono interessanti anche i risultati di uno studio, di cui scrive Natalia Milazzo su Scienza in Rete, sul livello di conoscenza dell’importanza che le differenze di sesso e genere hanno in medicina da parte dei medici internisti europei.
«L’inchiesta – spiega Milazzo – si è basata sulle risposte raccolte attraverso un questionario inviato a un campione di 1.323 medici internisti attivi in 33 paesi europei: persone prevalentemente giovani, per quasi il 60% donne, in grande maggioranza con attività in ospedali pubblici. L’80% di chi ha partecipato all’indagine dimostrava di conoscere almeno a grandi linee l’esistenza e i temi di interesse della medicina di genere. Sembra un buon dato, notano gli autori: ma a guardarlo dalla parte opposta lo stesso numero mostra anche che un medico o una medica su cinque non ne sapeva praticamente nulla. La consapevolezza che le caratteristiche di sesso e genere sono rilevanti per la salute e per la malattia è risultata massima quando ci si riferiva alle malattie del cuore (92,9%), minima per le condizioni neuropsichiatriche (28%). Aspetto molto importante: dalle risposte al questionario sono emersi chiaramente sia la consapevolezza che il tema è poco rappresentato nella ricerca e nelle linee guida cliniche, sia il desiderio di ricevere un’adeguata formazione in proposito».
(Foto di Artem Podrez su Pexels)
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