Se è vero che ultimamente si parla spesso e con meno difficoltà di un tempo di disagio psichico e di psicoterapia, in certi casi si corre il rischio di ridurre ogni problema a una questione di psicologia individuale. Certe volte, invece, è necessario lottare per cambiare le condizioni esterne che causano il disagio. Ne scrive Gianpaolo Contestabile sul Tascabile.

La salute mentale è oggi uno degli argomenti più discussi, spiegati, promossi, venduti e raccontati dai mezzi di comunicazione. Esistono psicologhe influencer che forniscono consigli dai loro canali e pazienti che condividono le loro testimonianze attraverso video, libri e opere d’arte. Il boom della salute mentale è sicuramente una buona notizia se pensiamo al superamento dello stigma e alla possibilità di informare un pubblico ampio rispetto alla gestione di alcuni disturbi avvolti da pregiudizi. La sovraesposizione mediatica, però, porta con sé anche il rischio di “psicologizzare” la società, cioè spiegare tutti i fenomeni sociali a partire da processi mentali e di voler cambiare il mondo partendo dalla nostra psiche individuale.

Nel suo articolo La meditazione che fa bene al capitale, Ronald Purser spiega come la tecnica buddista della Mindfulness sia diventata la ricetta perfetta da vendere sul mercato perché ci rende pacifici, cioè “vuole convincerci che le cause della nostra sofferenza vanno ricercate soprattutto dentro noi stessi, e non nel contesto politico ed economico che determina il modo in cui viviamo”. In questo caso si tratta di una forma mercificata della mindfulness, che di per sé può invece essere un utile strumento per gestire lo stress, l’ansia e modificare alcuni automatismi mentali che ci fanno soffrire. Il problema si presenta quando viene ridotta a una ricetta per il successo e si trasforma nella panacea di tutti mali, o addirittura come una filosofia rivoluzionaria necessaria per cambiare il mondo.

Qualcosa di simile potrebbe succedere con le terapie psicologiche quando si paventa la possibilità di risolvere qualsiasi problema semplicemente iniziando una terapia. Quando problemi strutturali come la povertà, la violenza domestica, lo sfruttamento, la disoccupazione o la distruzione dell’ecosistema diventano questioni personali, allora il campo d’azione si riduce alla depressione, al self empowerment, allo stress da lavoro correlato, all’abuso di sostanze o all’ansia. Il contesto sociale rimane sospeso, lasciando spazio esclusivamente all’interpretazione e gestione dei sintomi della paziente. Il processo clinico della terapia è un’ottima risorsa che aiuta le persone a conoscersi e curarsi ma non può essere la bacchetta magica per risolvere i conflitti che riguardano la collettività. Per esempio, una campagna di sensibilizzazione sul burnout lavorativo lanciata su Instagram propone come unica soluzione rivolgersi a un servizio di psicoterapia online a prezzi calmierati. Organizzarsi per migliorare le condizioni di salubrità, i ritmi di lavoro, la cultura aziendale, ridurre i turni e la competizione sfrenata rimangono invece rimossi dai possibili scenari d’azione.

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(Foto di Tiago Felipe Ferreira su Unsplash)

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