Gli allarmi lanciati da più parti rispetto ai numerosi rischi portati dalla sempre più pervasiva presenza di strumenti e servizi digitali che si servono dei nostri dati per funzionare non sempre vengono presi seriamente. Carlo Blengino, sul suo blog per il Post, riflette su come a questo tema, importante e urgente, manchi un corpus di storie in grado di colpire l’opinione pubblica.

Se Jonathan Safran Foer nel suo libro “Possiamo salvare il mondo prima di cena” invece di parlare della catastrofe climatica, trattasse delle minacce che insidiano le nostre democrazie nell’attuale società digitale dell’informazione, credo direbbe che la privacy e i rischi di una società della sorveglianza di massa e del controllo non sono una buona storia da raccontare.

La narrazione delle peggiori violazioni della nostra riservatezza e delle intollerabili intrusioni nella nostra vita privata ad opera dei Governi o delle grandi multinazionali tecnologiche – quelle raccontate da Snowden per intenderci o quelle che rivelano la costante e progressiva manipolazione algoritmica delle nostre vite – sono storie buone solo per la letteratura e per il cinema, per un altrove che sa di fantascienza e distopia, ma sono storie che non ci coinvolgono, che sembrano non toccare la nostra banale quotidianità. Non sono storie buone per suscitare passione e reazione.

Parlare di tutela della privacy, o meglio parlare del governo dei nostri dati personali costantemente memorizzati nella ineludibile digitalizzazione delle nostre vite è forse oggi ancor più complesso, difficile e noioso che parlare di climate change o di global warming.

I due temi, la tutela della privacy e quella dell’ambiente, hanno invero dinamiche assai simili nella percezione delle minacce che vi si annidano.

Come scrive Foer, anche chi, sensibile al tema, è rimasto scosso dalla visione di “Una scomoda verità” di Al Gore ed è consapevole dell’origine del continuo accavallarsi di emergenze -le piogge torrenziali, le alluvioni e le siccità- e non nega razionalmente l’urgenza e la cruciale importanza della posta in gioco, poi, nell’intimo, non crede: non crede di esser parte attiva di quella narrazione disastrosa, non sente l’urgenza di agire e in ogni caso o non sa che fare o non è disposto a rinunciare ad alcunché per un pericolo percepito come astratto e lontano.

Io son tra questi.

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