di Federico Caruso

Perché nel nord Italia c’è stata l’esplosione di casi di coronavirus che tutti ricordiamo mentre altre zone d’Italia, pur registrando alcuni casi, non hanno vissuto esperienze altrettanto drammatiche? Perché, mentre in alcune zone del mondo si sviluppavano focolai ad altissima virulenza, in altri luoghi con condizioni simili la diffusione non ha destato particolari preoccupazioni? Nel corso dei mesi ci siamo dati diverse spiegazioni di questi fenomeni, e certamente vari fattori hanno concorso al determinarsi di andamenti diversi della pandemia. Ma c’è una variabile a cui abbiamo dato meno importanza del dovuto.

Da R0 a k

Nel diluvio di dati da cui siamo stati sommersi fin dall’inizio della pandemia, uno dei fattori su cui ci è stato detto di porre particolare attenzione è il fattore R0, che indica quante persone infetta mediamente ogni persona che contrae il coronavirus. Se ogni malato contagia altre tre persone, il livello di R0 è 3. Per sconfiggere il virus è necessario che R0 scenda sotto il valore di 1, in modo che progressivamente la diffusione del virus si arresti. Questo è certamente vero, ma solo nel caso in cui il virus si trasmetta in maniera omogenea. Per un virus come il SARS-CoV-2, responsabile del COVID-19, bisogna considerare anche k, ossia un valore che indica il livello di dispersione del virus. Come spiega Zeynep Tufekci in un lungo articolo uscito sull’Atlantic, k ci aiuta a capire se un virus si diffonde in maniera uniforme o “a ondate”, con una persona che ne infetta molte altre, tutte in una volta. Dopo nove mesi di raccolta dati, possiamo dire che l’attuale coronavirus è un patogeno che si diffonde in maniera decisamente dispersiva. Si sviluppa per cluster, o “grappoli”. Questo è un fatto che si conosce fin dalle prime ricerche fatte per studiare e capire il virus, eppure non è stato particolarmente preso in considerazione nel determinare le misure per contrastarlo. Diversi studi suggeriscono che il 10-20 per cento delle persone infettate sia responsabile dell’80-90 per cento delle trasmissioni. Uno studio appena pubblicato su Science, condotto su un grande numero di persone in due stati indiani, ha osservato che il 71 per cento degli infettati non aveva trasmesso il virus a nessun altro, e che l’80 per cento degli infetti rintracciati attraverso il tracciamento dei contatti era stato contagiato dal 5 per cento del campione. Molte persone che si ammalano trasmettono poco o per niente il virus ad altri. Spesso, nel raccontare il modo in cui questo si è diffuso nei diversi paesi, si è parlato di persone arrivate dall’estero, che poi l’hanno diffuso tra la popolazione. Ci si è soffermati meno sui moltissimi altri casi in cui l’ingresso di persone infette in un paese non ha determinato una rapida diffusione del virus. Per esempio, in Nuova Zelanda il virus è stato introdotto dall’estero ben 277 volte (cioè da 277 persone diverse in momenti diversi), ed è stato calcolato che solo nel 19 per cento dei casi questo ha portato a più di un singolo contagio.

Contact-tracing al contrario

La dispersione con cui si moltiplica il virus dovrebbe portare, secondo diversi scienziati, a un cambio di approccio per quanto riguarda il tracciamento dei contatti. In questo momento, quando si individua una persona infetta, si cerca di risalire alle persone con cui è stata in contatto nei giorni precedenti, per testarle e capire se sono state a loro volta infettate. Ma se il virus si diffonde “a ondate”, è probabile che quando è stato contagiata la prima persona ne siano state contagiate anche altre. Invece di procedere quindi dal momento del contagio in avanti, bisognerebbe guardare indietro, ossia a quando è possibile che la persona si sia contagiata, in modo da risalire a chi l’ha contagiata e alle altre persone potrebbero essere state contagiate nella stessa occasione. In questo modo, si riuscirebbe a individuare un numero molto più alto di persone e quindi a contrastare la diffusione del virus con più efficacia. È più importante individuare gli eventi di trasmissione, più che gli individui infettati.

Il fatto che il coronavirus si diffonda in modo così intermittente (a differenza, per esempio, dell’influenza), ci rende più complesso imparare dagli episodi passati. È possibile infatti che due situazioni molto simili portino a esiti molto diversi, rendendoci difficile prendere delle contromisure. Alcuni fattori sono costanti: luoghi chiusi, con poco ricambio di aria, dove si riuniscono molte persone, hanno dimostrato di essere particolarmente favorevoli alla diffusione del virus. Ma c’è molta variabilità a seconda dei casi. Un ultimo aspetto su cui mettono in guardia gli scienziati è il fatto che, una volta che il virus si è diffuso in maniera capillare, può dare l’impressione di avere una circolazione omogenea e costante (e quindi apparentemente sotto controllo), perché non è più possibile identificare i diversi focolai. Ma questo non deve fare perdere di vista il fatto che il coronavirus non è l’influenza, e quindi c’è la possibilità che la situazione degeneri velocemente.

(Foto di Markus Spiske su Unsplash)